venerdì 31 dicembre 2010

Questione di botti



Giorno di scoppi di petardi di tappi di spumanti di lacrime di gioia (?) di grandi mal di testa.

Giorno di saluti e di abbracci e di una certa ipocrisia.

Giorno di fantasia di progetti per il futuro. Mi abbraccerai? Ti abbraccerò? Raggiungerò il traguardo? Ritroverò la quiete al mio ritorno? Dipingerò il corridoio? Farò quel volo di sedici ore? Comprerò la K5? Scriverò per la guida? Otterrò quello che non chiedo ormai più? (ne sarei rallegrato?) L’asilo e i virus. Nuovo lavoro e idee. Nuove bottiglie che mi ispireranno, mi cambieranno, mi convinceranno, mi spingeranno a successive domande. Ci saranno forse malattie? I denti del giudizio resteranno al loro posto? Il Governo cadrà? (vi succederà uno migliore?).

Giorno di pensieri di bilanci, nostalgia per ciò che se ne va di un anno positivo. Il viaggio a nord della vigna, quello oltre il sipario del teatro, battesimale o aziendale. Quelli andati che restano o che restano ma sono andati. Odori che sono come ossigeno. Stanze di cui aprire le finestre.

Bottiglie vuote che si lasciano dimenticare ed altre ancora vive dentro. Come il Lagrein di Solva, lo Chassagne Montrachet 2005 con la polenta al tartufo, l’Aglianico del Vulture di D’Angelo, il Pinot Noir valdostano di Ottin, il Metodo Classico senza etichetta di De Bartoli, i due stupefacenti Merlot di Radikon e di Massa Vecchia e la Vitovska giovane di Zidarich bevuta sul belvedere. E poi anche Joly e la paradigmatica, monumentale Coulée de Serrant 1999, il Barbacarlo di Lino Maga, il Nerello Mascalese di Cornelissen ma anche quello di Foti, La Stoppa 2002, il Chianti Classico Riserva 1982 Castell’in Vigna, l’Amarone della Tenuta S. Antonio e quello di Stefano Accordini. Il pazzesco Champagne Les Rachais di Raymond Bouland, il Valtellina classico di ArPePe.

Piacere passato che come un’onda lascia al suo ritiro schiuma e plancton a nutrire l’anima. A fare di noi uomini e donne migliori come solo le emozioni sanno. E, a volte, i dolori.

Giorno di scoppi di amori di sogni di liti di guerre di risate.

Ma non giorno di parole al vento di superficialità.

sabato 11 dicembre 2010

Roma invita a rinascere

C'era una luce splendida a Roma quel giorno. Ed io sono uscito e ho vagato per la città, ho fatto foto mi sono lasciato trasportare da ricordi, suggestioni nostalgie malinconie desideri e certezze.
E poi ho fatto tappa da Enzo dove tartufo e filetto hanno consolato la tristezza mia di Luigi e Raimondo per aver rimandato le eno-scorribande in langa e provenza.



Già natale il tempo vola,
l'incalzare di un treno in corsa,
sui vetri e lampadari accesi nelle stanze dei ricordi,
ho indossato una faccia nuova,
su un vestito da cerimonia
ed ho sepolto il desiderio intrepido di averti affianco.

Allo specchio c'è un altra donna,
nel cui sguardo non v'è paura
com'è preziosa la tua assenza
in questa beata ricorrenza,
ad oriente il giorno scalpita non tarderà.

Guarda l'alba che ci insegna a sorridere,
quasi sembra che ci inviti a rinascere,
tutto inizia, invecchia, cambia forma,
l'amore tutto si trasforma
l'umore di un sogno col tempo si dimentica.

Già natale il tempo vola,
tutti a tavola che si fredda,
mio padre con la barba finta
ed un cappello rosso in testa
ed irrompe impetuosa la vita, nell'urgenza di prospettiva

Già vedo gli occhi di mio figlio
e i suoi giocattoli per casa,
ad oriente il giorno scalpita,
la notte depone armi e oscurità..

Guarda l'alba che ci insegna a sorridere,
quasi sembra che ci inviti a rinascere,
tutto inizia, invecchia, cambia forma,
l'amore tutto si trasforma,
persino il dolore più atroce si addomestica,
tutto inizia, invecchia, cambia forma,
l'amore tutto si trasforma,
nel chiudersi un fiore al tramonto si rigenera.
(Carmen Consoli)

lunedì 29 novembre 2010

US and THEM



Noi, forse, una pensione non ce l’avremo. Loro protestano vivacemente per la propria. A volte la prendono a cinquantacinque anni.

Loro hanno beneficiato del boom economico dei sessanta e di quello edonistico degli ottanta. Noi ci siamo trovati sul groppone la crisi della new economy (fine anni novanta), quella delle torri (duemilauno) e quella dei mutui subprime (duemilaotto).
Loro hanno visto un Paese con un debito pubblico sostenibile, al livello di tanti altri Stati europei. Noi un debito pubblico colossale, uno dei più alti tra i paesi “ricchi”.

Loro avevano genitori e suoceri che accudivano i figli: i celebri “nonni di una volta”, di cui parlano anche tutte le fiabe dei fratelli Grimm. Noi abbiamo genitori aitanti che si sentono ancora giovani e prestanti. Nipoti si, purché non interferiscano con la palestra, il circolo di scopone scientifico, il week end in Toscana, il cinema e il ristorante.

Noi non importa se sei mamma, l’orario corto non esiste più. Loro non importa se non sei mamma, l’orario lungo non è per te.

Noi il contratto a tempo indeterminato come punto di massima garanzia, spesso utopistico. Loro come forma contrattuale ordinaria.

Loro che una famiglia doppio reddito era una scelta. Noi che è un obbligo.

Loro e le battaglie per il divorzio e per l’aborto. Noi il “Movimento per la Vita” e il “Family Day”.

Loro che i Beatles e i Led Zeppelin e i Doors e i Pink Floyd li hanno visti nascere (ma spesso ascoltavano Nilla Pizzi). Noi che ascoltiamo ancora la musica degli anni settanta perché il resto fa schifo.

Loro il sabato una pizza con gli amici. Noi il tagliolino al tartufo.

Loro che un viaggio era un’odissea. Noi che voliamo low cost.

Noi siamo stati giovani con Berlusconi, Bossi, Rutelli e D’Alema. Loro con Moro, Spadolini, Pertini e Berlinguer.

Noi se vogliamo andare al mare senza fare il bagno con le pantegane dobbiamo fare chilometri su chilometri. Loro andavano dietro l’angolo e trovavano l’acqua pulita.

Loro suonavano la chitarra in spiaggia intorno al falò con la “maglietta fina”. Noi suoniamo con “guitar hero”, i falò sono vietati, e la maglietta è slim fit.

Noi giriamo ore per il parcheggio. Loro giravano ore per il corteggio.

Loro d’estate passeggiavano in Vespa sul lungomare. Noi anche d’inverno sulla tangenziale.

Loro in un ambiente socio-economico arcaico ma protetto. Noi in un sistema arcaico ma senza protezioni.

Loro al massimo una malattia venerea. Noi l’AIDS.

Loro una generalizzata fiducia nel futuro. Noi un generalizzato pessimismo.

Loro: l’emozione nella tv in bianconero. Noi: la pubblicità su internet.

Loro le lettere e gli “amici di penna”. Noi gli sms e gli “amici su Facebook”.

Loro “il matrimonio è per la tutta la vita”. Noi “il matrimonio è per il contributo al giro del mondo, da versare sul conto corrente dell’agenzia”.

Loro e l’eredità da lasciare alle generazioni future. Noi e le bollette da scaricare sulle generazioni future.

Loro e il declino del comunismo (cioè gli altri). Noi e il declino del capitalismo (cioè noi).

Loro, i giovani e i vecchi. Noi siamo tutti giovani.

Loro e la “pace dei sensi”. Noi e il Viagra.

Noi, la rete. Loro, i riti.

Loro “si stava meglio quando si stava peggio”. Noi “si stava meglio quando si stava meglio”.

venerdì 26 novembre 2010

Quando il "pueblo" è "unido"


Se assisto ad un movimento popolare, ad un corteo, non resto mai indifferente. Il movimento della moltitudine mi emoziona. Se poi questa folla invoca ad alta voce il rispetto di diritti, se rivolge la propria protesta contro chi è più potente e più cinico, se lotta per ideali nobili come la cultura, la giustizia, l’uguaglianza, la pace allora la mia emozione diventa incontenibile, me la faccio proprio sotto. In senso metaforico, s’intende. Insomma non riesco a trattenere il coinvolgimento e se non sono lì in piazza, vorrei esserci.

Avete mai provato ad unirvi ad un corteo? Si prova un’adrenalina unica nel movimento collettivo, camminare insieme ad altri in un’unica direzione e gridare cose condivise da chi ti sta intorno. Si ha la sensazione di essere parte di qualcosa. Una sensazione piuttosto rara nel nostro tempo d’individualismi.

Un elemento di ulteriore piacere è vedere la protesta sui volti dei più giovani. Quando vedo i ragazzi che protestano mi eccito. Non posso farci niente. Sarà che sto invecchiando, ma un diciottenne che vuole partecipare, far sentire la propria voce mi tranquillizza sul futuro allo stesso modo in cui mi deprime vedere ragazzi lobotomizzati ai concorsi per veline o davanti al Grande Fratello o con uno “smart” phone in mano. Forse è superficiale restringere il giudizio a poche osservazioni e pretendere di trarne “considerazioni sociali”. Forse. Ma non me ne frega niente. Quello che conta è l’emozione. Perché io da piccolo sentivo gli Inti Illimani cantare “el pueblo unido jamas sera vencido” e, mentre mi raccontavano dei giovani cileni scappati in giro per il mondo a cantare il proprio dolore io ci credevo. E, in fondo, ci credo anche adesso. Pure se il mondo è cambiato un bel po’ e anche i giovani probabilmente sono diversi.

Un corteo ha energia come un fiume. Nessuno può dire con certezza dove andrà quel flusso. Anche se, certo, esistono gli argini. Può capitare la circostanza sfortunata che ci siano incidenti. Certo se sali sulla torre potresti cadere. E’ certo però che se pensi di farti sentire scrivendo una bella letterina educata, difficilmente smuoverai chi tiene in mano le leve delle decisioni. Quanto all’opinione pubblica non solo non la smuoverai, ma forse neppure ne desterai la minima attenzione.

L’assalto al Senato è un atto simbolico che mi ha fatto sbavare. Lo so, è un sentimento un po’ deviato, ma sentire il vecchio e guasto giornalista invocare la repressione reazionaria (“picchiate i manifestanti”!) mi ha dato la conferma che l’atto dimostrativo ha colto il punto, è arrivato al cuore generando l’effetto per cui è stato eseguito. Quello di creare emozione. Emozione cioè ammirazione oppure indignazione, apprezzamento o condanna. Espressione di rabbia e di malessere che monta e che cresce mese dopo mese, protesta dopo protesta e che un giorno arriverà alla foce. Ottenere ciò che chiede o, magari, affievolirsi per uno scatto generazionale. Perché i giovani diventano vecchi. Gli incendiari, pompieri.

venerdì 12 novembre 2010

Ode al viaggio



Sentire i chilometri che si susseguono, solcati dalla tua macchina, il tuo treno, il tuo aereo, i tuoi piedi. Percepire il movimento, lo spostamento, il cambiamento. Andare da soli, con se stessi come unico amico con cui condividere le emozioni, e sentirle per questo esplodere ancora più intensamente nella propria anima. Andare in due, concedendosi lo spazio di eplorarsi nel profondo, facendo finalmente quel viaggio che si è sempre sognato, da vivere come un’inserzione nella reciproca intimità. Darsi l’illusione di non tornare mai più. Andare in gruppo, muovendosi a ondate, amalgamandosi in un’identità collettiva, un soggetto nuovo che crea forme attraverso il contributo di tutti, che disegna scenari che sarebbero diversi se l’alchimia fosse un’altra, con altre persone a comporre il gruppo. Veder nascere affinità parallele oppure perpendicolari, cementarsi durante il percorso. Litigare, affermare se stessi. Cedere parti di sé. Andare con un figlio o un genitore, sperimentando un nuovo legame, unica possibilità di essere pari di fronte al mondo, solidali in modo biunivoco e guardare in modo simile ma differente, ma sempre con stupore, il paesaggio che si evolve.

Sognare di restare in un luogo, per viverlo da dentro. Riuscire a farlo per davvero. Trasformarsi da turista in viaggiatore. Restare viaggiatori anche dopo essere tornati a casa, convinti che lo stato di viandante non sia una condizione del corpo ma dell’anima. Un bisogno insopprimibile che permette al fuoco di restare acceso. Portar qualcosa dopo un viaggio, da conservare, da ricordare, da ingrandire, da ammirare, da regalare. Tenere qualcosa dentro, per sempre. Viaggiare così a lungo da non aver più una casa.

Guardarsi intorno e scoprire realtà nuove. Accorgersi che i tuoi occhi guardano con maggiore interesse, con più curiosità. Tutti i sensi seguono, si attivano, si accelerano. Odori nuovi di cucine insolite, di alberi e natura cui non sei abituato. Sapori da esplorare e luce diversa, più sole, meno sole. Più caldo oppure più freddo. Un altro orario in cui hai sonno se c’è luce, ma stai sveglio di notte. Il corpo è più veloce, il metabolismo è più veloce, il pensiero è più veloce. Scatti meglio le tue fotografie, i pensieri di diradano, parli più fluido la tua lingua o quella di altri popoli che ora ti sommerge, ti sovrasta e ti costringe a leggere tutto con maggiore impegno, ad ascoltare con tutta la tua attenzione. Nutrirsi delle differenze, tra i tuoi modi e gli altri, nuove abitudini e convenzioni con cui confrontarsi, un senso comune diverso dal tuo, un senso dell’umorismo che ti è alieno, come tu stesso sei alieno al contesto. Oppure no, sei esattamente nel posto in cui ti senti te stesso, dove hai sempre voluto essere, quel posto che ti appartiene come tu sembri appartenere ad esso. Il luogo in cui hai l’impressione di esser sempre vissuto, in cui riesci a ricollegarti con la tua essenza. Ma a volte essere proprio nel punto da cui vorresti fuggire, un luogo che ti opprime e ti intrappola. Provare la leggerezza di potersene allontanare. E continuare ad andare. Altrove.

venerdì 22 ottobre 2010

Outing



So di avere una forma maniacale. Non credo sia proprio una patologia, ma è anche vero che non mi intendo di patologie. Sono un feticista. Di libri. Non è da molto che ce l’ho, qualche anno. Ma si alimenta col tempo. A me il libro non piace solo leggerlo. No, no. Mi piace guardarlo, in tutte le sue forme, che occhieggia dagli scaffali di una libreria o dalla mia mensola. Copertine colorate, con foto bellissime o quadri famosi o disegni pieni di cromatismi. Ma anche gli Adelphi mi attraggono, con il loro aplomb severo. E che dire dei tascabili. Piccolini, con copertine sottili, sottili come le mani di un bambino. Sono così delicati che potresti fargli male. Gli angoli delle pagine si piegano con la stessa facilità della carta velina, tanto che mantenere un tascabile intonso è opera da certosini. Di ben altra natura i saggi ponderosi da centinaia di pagine, con la copertina rigida. Mi ricordano i vecchi quadri con le cornici dorate. Pesanti, monumentali, cupi. I classici ispirano tranquillità, sai che staranno con te per sempre. Consorti pedanti che un giorno o l’altro riscoprirai nella loro bellezza, magari dopo aver tradito con qualche bestseller da pochi soldi. O con l’ultimo Strega.

Poi il libro mi piace annusarlo. Quando è nuovo sa di colla e di carta e di plastica. E’ ancora piuttosto neutro e attende di passare fra le mani del lettore che gli darà parte di sé. Stazionerà in qualche zaino o borsa, nel cruscotto di un’auto, su qualche comodino prenderà odori nuovi e il profilo delle pagine diverrà sempre più scuro di polvere e sudore delle mani e fumo. L’identità più forte però ce l’hanno i libri d’epoca. Il tempo gli ha regalato un colore giallastro e l’odore della carta si avvicina a quello del legno. L’odore del tempo. Sono cibo da archeologi, da spulciatori di soffitte, gente che si eccita per la caduta di qualche pagina che viene via dalla rilegatura come fosse foglia autunnale.

Amo anche possederli ovviamente. Tenerli tra le dita, sentire il fruscìo delle pagine, il battito della copertina sul tavolo, il peso sulla mia spalla o sul petto prima di addormentarmi. Ne allineo un po’ accanto al letto, sono quelli “da leggere”: una pila che tende costantemente ad aumentare. Già perché se entro in una libreria, la mia terra di perdizione, quattro volte su cinque esco con una busta di libri. Non posso farne a meno. Compro, compro e compro sulla base di consigli di amici, suggestioni passate o compulsione del momento. E poi allineo sulla mensola. Compro, allineo. Compro, allineo. Sono uno di quelli che prima o poi cambia casa per far spazio ai libri.

Scelgo le letture sulla base dell’estro del momento oppure del periodo che sto vivendo. Il momento magico però non è solo quello della lettura. Quella è la vita reale. C’è però anche un periodo che precede la lettura, che dura dal primo momento in cui si è vista la copertina e si è stabilito il primo contatto col libro all’apertura della prima pagina. E’ l’attesa, che io tento di prolungare grazie alla fedele mensola (finché crollerà). Il periodo in cui si immagina che libro sarà, se ci catturerà trascinandoci nel gorgo dei sogni, della fantasia, delle emozioni o dei ricordi come accade coi libri migliori, oppure no. Se sarà facile o impegnativo, lento o scorrevole. Se si farà bere allegramente come succo d’arancia o se piuttosto pretenderà l’approccio pensoso di un cognac secolare. Ti immagini i luoghi migliori per leggerlo e goderlo al massimo. Interromperai a metà? Arriverai alla fine? Ti annoierà all’inizio per poi avvincerti dopo le prime cento pagine? Susciterà aspettative sul finale? Le attenderà? Le deluderà? Quale sarà il prossimo che leggerò? Perché?

martedì 5 ottobre 2010

Un altro come me

Con te mi trovo a sperare
di non correre il rischio di pensare male.

Che non è una cosa trascendentale
averti buttato in questo abisso teatrale.

Un altro come me a passeggio nel mondo,
quando in fondo, uno poteva anche bastare.

Spero di riuscire a non sperare
che tu completi il mio percorso,
che tu possa dove ho fallito.

Sarebbe molto più giusto lasciare
che tu riesca a fare, quello che
quello che veramente vuoi fare.



Sogna, ragazzo sogna (R. Vecchioni)
E ti diranno parole
rosse come il sangue, nere come la notte;
ma non è vero, ragazzo,
che la ragione sta sempre col più forte; io conosco poeti
che spostano i fiumi con il pensiero,
e naviganti infiniti
che sanno parlare con il cielo.
Chiudi gli occhi, ragazzo,
e credi solo a quel che vedi dentro;
stringi i pugni, ragazzo,
non lasciargliela vinta neanche un momento;
copri l'amore, ragazzo,
ma non nasconderlo sotto il mantello;
a volte passa qualcuno,
a volte c'è qualcuno che deve vederlo.

Sogna, ragazzo sogna
quando sale il vento
nelle vie del cuore,
quando un uomo vive
per le sue parole
o non vive più;
sogna, ragazzo sogna,
non cambiare un verso
della tua canzone,
non fermarti tu...

Lasciali dire che al mondo
quelli come te perderanno sempre;
perchè hai già vinto, lo giuro,
e non ti possono fare più niente;
passa ogni tanto la mano
su un viso di donna, passaci le dita;
nessun regno è più grande
di questa piccola cosa che è la vita

E la vita è così forte
che attraversa i muri senza farsi vedere
la vita è così vera
che sembra impossibile doverla lasciare;
la vita è così grande
che quando sarai sul punto di morire,
pianterai un ulivo,
convinto ancora di vederlo fiorire

Sogna, ragazzo sogna,
quando lei si volta,
quando lei non torna,
quando il solo passo
che fermava il cuore
non lo senti più ;
sogna, ragazzo, sogna,
passeranno i giorni,
passerrà l'amore,
passeran le notti,
finirà il dolore,
sarai sempre tu ...

Sogna, ragazzo sogna,
piccolo ragazzo
nella mia memoria,
tante volte tanti
dentro questa storia:
non vi conto più;
sogna, ragazzo, sogna,
ti ho lasciato un foglio
sulla scrivania,
manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu.

lunedì 4 ottobre 2010

Sull'egemonia francese



L'Italia ha fallito il suo progetto unitario, cominciato 150 anni fa. Non è il caso di andare oltre, arrendiamoci all'evidenza. Ad un secolo e mezzo dall’unità tutti i principii che erano alla base del Risorgimento, se non sono stati esplicitamente traditi non appassionano comunque la maggioranza dei cittadini. L’Italia non è un paese coeso socialmente, geograficamente, economicamente. E’ disgregato produttivamente, fra ricchi e poveri, giovani e vecchi, donne e uomini, religiosi e laici, omosessuali ed eterosessuali, evasori e non evasori, guardie e ladri.

In più, l’Italia unitaria periodicamente produce scorie del sistema democratico che creano disagi e imbarazzi in tutto il mondo come il fascismo, il terrorismo politico, lo stragismo, la mafia, il berlusconismo.

E’ ora di finirla. Ci abbiamo provato, a giocare allo Stato sovrano, a recitare il ruolo della Repubblica democratica, ma non ce l’abbiamo fatta. Non è un dramma, non c’è da disperarsi. La democrazia non è per tutti. Gli italiani sono un popolo che ha bisogno di essere sottomesso, non può autodeterminarsi. Se indirizzato da una mano forte e decisa, può anche esprimere qualità uniche e nobili come le arti, il senso della bellezza, la buona cucina, il sentimento. Abbiamo anche un clima invidiabile. E allora perché non riflettere su quale mano debba guidare questo popolo dotato di alcune buone peculiarità ma assolutamente incapace di autogovernarsi? Quale conduzione dare a questa terra ricca di inestimabili patrimonii?

Io molto modestamente una proposta da avanzare ce l’ho.

Dovrà essere un popolo Europeo. Non si può guidare una terra come l’Italia, con una storia millenaria ancorché non unitaria, senza avere un bagaglio di tradizioni e di cultura almeno simile. Inoltre la necessità di una prossimità geografica esclude i popoli più lontani come la Cina, il Giappone, l’America. I tedeschi potrebbero essere una buona idea, ma sono troppo diversi da noi: troppo normativi, intransigenti, rigorosi. La fusione tra i popoli sarebbe impossibile e alla lunga creerebbe rischi di rigetto. Stesso discorso vale per i popoli nordici, potenzialmente adatti per alcuni motivi ma a mio avviso incapaci di comprendere la complessità dell’anima italiana e guidarla come si converrebbe. Per contro spagnoli e greci finirebbero per essere talmente condizionati dalle perversioni italiane da finirne invischiati con nefasti effetti sulla riuscita dell’operazione. I francesi, invece, porterebbero a termine il progetto di conquista dell’Italia con grande successo in un orizzonte relativamente breve, diciamo di altri 150 anni. Del resto, se abbiamo dato un secolo e mezzo di tempo al progetto risorgimentale unitario prima di trarne le conclusioni, mi sembra giusto concedere lo stesso tempo anche al progetto egemonico per concretizzarsi oppure essere rivisto.

Il popolo dominante porterà trasporti migliori (piste ciclabili, metropolitane, rete ferroviaria e stradale migliore), buona amministrazione, stato sociale vero (e non la caricatura italiana) e maggiore attenzione alla cultura. Laicità, progresso sociale e pluralismo. Equità nel pagamento delle tasse, tutela dei più deboli e maggiori fondi alla ricerca scientifica. La Francia è il paese al mondo in cui il socialismo ha funzionato meglio, la vera “terza via” tra comunismo e capitalismo. Quello stesso “sistema misto” tra impresa e Stato che anche l’Italia ha tentato invano di praticare naufragando nella corruzione, con conseguente scomposta reazione iper-liberista (almeno in teoria). Non si può, come fa l’Italia di questi anni, smantellare il Welfare perché costoso abbracciando il mito della libera impresa senza però creare il contesto liberalizzato e regolamentato che hanno paesi come Stati Uniti e Inghilterra, che hanno abbracciato il modello dello “Stato leggero” molto più della Francia. In sostanza la Francia ci assomiglia come modello di governo, ma senza le aberrazioni italiane. I francesi sono così simili agli italiani da essere definiti “cugini”, quindi ogni ipotesi di mancata omogeneizzazione, su un orizzonte di un secolo e mezzo, è da considerarsi improbabile.

In cambio dovremo accettare poche cose, come il blu a posto del verde nella bandiera e lo spostamento della capitale. Bazzecole, in confronto al privilegio di vivere in uno Stato democratico moderno.

So bene che il processo di omogeneizzazione tra i popoli non è cosa da poco. I tedeschi in venti anni non sono ancora venuti a capo della riunificazione. Ma la Francia è sempre stata espansionista, mica si cambia in un paio di secoli una storia millenaria. Il popolo italiano d'altronde si sottomette facilmente. Quindi c’è l’affinità su cui costruire un’idea di successo.
Un paese che nascesse dall’unione di Italia e Francia sotto le insegne di Liberté, Egalité, Fraternité sarebbe un colosso che primeggerebbe in molti settori nel mondo. Una superpotenza che metterebbe in discussione gli equilibri internazionali e l’orgoglio di tale grandezza consentirebbe agli italiani (che verrebbero chiamati “peninsulari” per distinguerli dai francesi – i “continentali”) di mettere da parte oziosi distinguo come l’affezione per la propria lingua (che diverrebbe lingua secondaria, insegnamento facoltativo nelle scuole) o per la pizza margherita, che continuerebbe a vivere spostando l’accento sull’ultima “a” e aggiungendo schegge di Camembert accanto alla mozzarella. La nazionale di calcio non sarebbe un problema, la maglia azzurra continuerà ad essere quella di tutti. Il problema dell’inno non esiste: quello di Mameli già oggi non lo conosce nessuno e la Marsigliese è obiettivamente una musica migliore. La Fiat diventerebbe socio di minoranza della Renault, ma nessuno sentirà la mancanza della Croma. Un po’ di musicaccia francese mandata in radio per legge non farà male a nessuno e se un peninsulare volesse continuare a chiamare “computer” il proprio attrezzo telescrivente in luogo di “ordinateur” nessuno lo accuserebbe di irredentismo.
I benefici sarebbero d’altronde di gran lunga superiori alle difficoltà.
A scuola, i bambini imparerebbero davvero la cittadinanza e l’educazione civica e non avrebbero simboli di partito alle pareti. Solo quelli di uno Stato sovrano forte e autorevole. Farebbero molti sport, dall’arrampicata al pentathlon. Terminerebbe l’emorragia di giovani che fuggono all’estero per la mancanza di prospettive e di fondi all’Università. La società sarebbe più composita, varia e complessa, in sostanza più ricca e meno conformista grazie ad una vera pluralità confessionale, alla tutela legislativa delle coppie di fatto e alla riduzione delle discriminazioni verso le donne. I trasporti pubblici consentirebbero la mobilità anche a chi non ha un’automobile mentre un Servizio Sanitario Nazionale realmente funzionante tutelerebbe la natalità (agevolata anche fiscalmente) e ridurrebbe le malattie (in alcuni casi oggi in Francia lo Stato finanzia alle donne la riduzione del seno quando questa allunga l’aspettativa di vita e determina un finale beneficio sulla spesa sanitaria pubblica). Le città più disagiate come Napoli e Palermo verrebbero risanate con ingenti capitali come sta accadendo a Marsiglia, che è stata fatta oggetto di 5 miliardi di euro di finanziamenti (progetto Euroméditerranée) per farne il primo porto del Mediterraneo. Finanziamenti europei/statali/regionali/privati gestiti in modo molto più abile di quanto si faccia in Italia (vedere ad esempio quanto accaduto per i Mondiali del 1990). I lavori pubblici (nuove strade, nuovi quartieri, viabilità, metropolitane, monumenti) come pure i piani regolatori verrebbero organizzati con criteri di maggiore efficienza, senza nessun condono e con una decisa lotta all’abusivismo. Il paesaggio ne verrebbe oltremodo migliorato, come pure la vivibilità delle nostre città congestionate, che respirerebbero grazie all’uso del modello francese nella gestione dell’urbanistica.

Si potrebbero fare altri numerosi esempi e confesso che più ci penso e più mi convinco che una fusione tra i due popoli, opportunamente egemonizzata dal più organizzato fra i due, gioverebbe ad entrambi.
Anche gli italiani hanno benefici da portare alla Francia. I popoli conquistati hanno sempre recato vantaggi diretti ai dominatori. Il nostro carattere gioviale smusserebbe le asperità francesi, la nostra propensione alla relazione sociale li renderebbe meno scontrosi. Siamo musicisti migliori, sappiamo giocare meglio a pallone e da noi il vino buono costa meno. Abbiamo spiagge straordinarie e grandi monumenti. Abbiamo Venezia, il Parmigiano, Firenze, l’amatriciana, Pompei, la Sicilia, il Colosseo e la Cappella Sistina (sarebbe finalmente di dominio pubblico la notizia finora tenuta nascosta che Michelangelo avesse origini francesi), la bottarga, la Toscana, insomma abbiamo qualche perla da portare in dote per rendere appetibile questo progetto di fusione. Altrimenti chi glielo farebbe fare ai francesi?

Ora si tratta di risolvere l’ultimo enigma, il nodo che non sono ancora riuscito a districare. Chi glielo dice a Ratzinger che deve nuovamente traslocare ad Avignone?

martedì 21 settembre 2010

"Quello che interessa la gente"


Una delle frasi che sento più spesso proferire da politici di ogni schieramento e da giornalisti, opinionisti, editorialisti, riguarda “le cose che interessano la gente”. Si dice di smetterla di litigare su alleanze e leggi elettorali, su nuovi partiti e leadership, che si dovrebbe parlare “di quello che interessa la gente”. Segue la consueta e famosa lista di temi come il precariato la scuola la sanità le tasse eccetera. Si dovrebbe parlare “di quelli che non arrivano alla fine del mese” (i quali si presume stiano perennemente davanti al televisore in attesa di essere blanditi).

E’ un grimaldello retorico che spunta ogni volta che si vuole strappare l’applauso, dicendo un’ovvietà che di sicuro non troverà opposizioni. Chi può contestare la necessità di parlare “di quello che interessa la gente”? Si usa questa argomentazione per trarsi fuori da una conversazione difficile, per fare la figura di quello che sta dalla parte dei cittadini accusando implicitamente gli interlocutori di non esserlo.

Ogni volta che lo sento ho la certezza che non si parlerà “di quello che interessa la gente”. Dire cose che suscitano la passione, la curiosità e la partecipazione della platea dovrebbe essere l’unica ragione di un intervento pubblico. Più che rivendicarne la (evidente) opportunità, sarebbe molto meglio sottintenderla e, semplicemente, parlare delle proprie posizioni. Delle proprie proposte. Delle proprie idee. Punto.

Tra l’altro, presumere di sapere “cosa interessa la gente” mi pare già un sufficiente atto di supponenza.

Il sistema dell’audience, televisiva in particolare, già postula implicitamente che il motivo dell’esistenza di un programma sia l’interesse da parte di una platea. Diversamente, si chiama propaganda. Cioè distacco rispetto alla partecipazione del pubblico, che si vuole invece orientare in modo manipolatorio. Non si dà cioè risposta, attraverso un dibattito pubblico, ad una domanda, ma si vuole invece modellare quella domanda sulla base di un “altro” disegno, di tipo autoritario.

mercoledì 15 settembre 2010

L'economia della felicità



Quello che segue è un articolo pubblicato su "Internazionale" di questa settimana. L'autore è MANUEL CASTELLS un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009).
Il tema che affronta mi è molto caro, credo che il futuro del mondo passi per questo "cambio di paradigma" nella misurazione del benessere.

Non se ne parla da oggi, il tema in varie forme è stato trattato da varie persone. Uno dei primi fu Bob Kennedy nel celebre discorso del 18 marzo 1968.


Viva l’economia della felicità

Tre mesi fa, in un discorso all’università della Carolina del Sud, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha deciso di parlare dell’economia della felicità. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola. In realtà Bernanke rientra in una corrente sempre più nutrita di professori, politici e imprenditori che stanno cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice, anche se
poi ognuno lo intende a suo modo. Il denaro non fa la felicità e neanche il consumo.

Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso sostituendo il calcolo del prodotto interno lordo con l’indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan. Proposto nel 1972 dal re Jigme Singye Wangchuk, l’indice è diventato il parametro di sviluppo multidimensionale del paese, che combina tra loro quattro obiettivi: uno sviluppo economico
equo e sostenibile in cui la crescita si traduca in benefici sociali per i cittadini, la conservazione dell’ambiente naturale, la difesa e la promozione dell’identità culturale butanese, un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale da cui dipende l’armonia della vita quotidiana. L’indice nazionale di felicità si basa su alcuni princìpi buddisti radicati nella cultura del Bhutan, ma la sua applicazione può essere estesa a qualunque paese o regione che scelga l’armonia come principio di organizzazione sociale.

Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale si è estesa a tutto il mondo. Esistono indici comparati dei livelli di felicità che, se volete, potete trovare su internet e dimostrano che il Bhutan, un paese povero con meno di 700mila abitanti, è tra i primi venti al mondo per livello
di felicità. Ovviamente tutto dipende dai criteri di misurazione scelti. E in questo i butanesi e i loro amici di altri paesi non sono soli. Sempre più studiosi stanno conducendo ricerche su questo tema, proponendo innovazioni metodologiche che tengono conto anche delle statistiche sullo sviluppo umano. Così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perché la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità. La crescita rapida abbassa il livello di felicità perché sconvolge la ruotine quotidiana.

Carol Graham, una ricercatrice della Brookings institution, ha condotto un’indagine in vari paesi e ha scoperto che i fattori chiave della felicità sono una vita privata stabile, rapporti afettivi soddisfacenti, una buona salute e un reddito sufficiente. Ma ha anche osservato che la felicità aiuta a essere in buona salute. Dagli studi fatti emergono due fattori fondamentali: la socialità e la capacità di adattamento. Più reti familiari e sociali abbiamo, più siamo felici. Gli esperti di comunicazione hanno già individuato questo fattore come il motivo determinante del successo dei social network. Più internet, più socialità, sia virtuale che reale. E maggiore è la socialità, maggiore è anche la felicità. Il rapporto con la comunità è essenziale per mantenere l’equilibrio psicologico. Partendo da questo presupposto alcuni programmi di assistenza sociale, per esempio in Canada, prevedono l’organizzazione di attività per i disoccupati che generino reti di relazioni sociali e raforzino l’autostima.

D’altra parte la capacità di adattamento degli esseri umani riesce a gestire delle condizioni di disequilibrio attraverso meccanismi di compensazione nei comportamenti. Bernanke ha citato un paragrafo rivelatore di Adam Smith: “La mente di ogni uomo, prima o poi, torna al suo stato naturale e usuale di tranquillità. Nella prosperità, dopo un certo periodo di tempo, riscende a quel livello; nelle avversità, dopo un certo periodo di tempo, risale a quel livello”. Quest’affermazione, corroborata dagli studi di psicologia economica, spiegherebbe la
relativa calma sociale in situazioni di crisi: tutti finiamo per adattarci a cose che ci sembrerebbero insopportabili in altre condizioni. Ma è proprio questa capacità di accontentarsi a produrre un’armonia che dipende da noi e non dal valore della vita misurato in termini monetari.

In fin dei conti lo scopo dell’economia classica era rendere felici gli esseri umani. Invece il concetto di felicità, data la difficoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo. Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di affetto a quello di difendere i beni comuni (come la natura). Anzi, la fuga nel consumo accentua gli squilibri psicologici.
Per questo non è un caso che quando ci viene a mancare il mercato ci sentiamo vuoti. Ma questo vuoto si va riempiendo delle scelte a cui fa riferimento questo nuovo filone di ricerca, sintomo di un profondo cambiamento culturale: l’economia della felicità. Spero abbiate trascorso delle vacanze felici.

lunedì 13 settembre 2010

Il Danno


Lei diceva che chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa che si può sopravvivere al dolore. Quindi, non ha pietà.

E’ piuttosto il destino a non avere pietà dei protagonisti, imponendo la perdita come fatale dazio da pagare alla ricerca della felicità. Perdita della fedeltà, della sincerità, della dignità nella prima parte del libro. L’apparente naturalezza con cui lei veste i panni della promessa sposa e della femme fatale si fonda comunque sulla perdita di una parte di sé: nell’assenza di una scelta definitiva si ha la sospensione del proprio percorso, la negazione di un’identità univoca (ma quale identità può veramente esserlo?). E poi la perdita di un figlio, da intendere come distruzione di sé, del proprio passato, delle proprie radici. Come dichiarazione di sconfitta.

Del libro l’elemento disgregante e “disturbante” è la crisi della normalità, l’attacco alle convenzioni che sono di noi tutti. Tiepida e serena come un piatto di brodo, la tranquillità borghese del benessere che s’insegue quando non la si possiede e si contesta quando la si ha. Martyn sembra così virtuosamente “normale”: bello, vivace, giusto. Così forte e indipendente da mettere in discussione l’assenza di caos e passione che aveva fatto da sfondo alla vita in famiglia, durante la sua giovinezza. Ma il normale muore, in questo romanzo che gioca provocatoriamente con le estremità. Dell’amore, del sesso, dell’attrazione, della vita (“tutto. Sempre”).

Tuttavia il libro ci dà anche una lettura morale (moralista?) della vicenda dei protagonisti. Attenti, signori, che a giocare col fuoco ci si può scottare. E’ ciò che succede a lui, che a questo gioco davvero non era abituato, ma in un certo senso anche a lei che vede sfumare il suo disegno. Eppure Anna mi sembra così onesta, nella ricerca del conforto come pure nell’abbandono alla passione. Cosicché il personaggio più sfuggente e ambiguo del romanzo è il più coerente fino al colpo di scena finale.

Infatti a differenza di lui, che perde tutto il piatto dopo aver giocato la propria mano, lei può tornare dal suo ex promesso sposo Peter, per (ri)costruire la propria esistenza. Curiosamente (ma non troppo) è ancora il compagno su cui si era appoggiata per superare il famoso danno di gioventù, a fornire il riparo tranquillo. Quel porto sicuro che tutti cercano, che alcuni fuggono, che a volte trovano. Per lei anche la svolta più banale, fin quasi a sembrare un’autopunizione. Davvero il ritorno con Peter, la risoluzione più restauratrice che si potesse immaginare, appare inchiodare il personaggio ad un destino mille volte più amaro, dal punto di vista del romanzo che resta una parabola sulla torrenzialità delle passioni, rispetto al suo contraltare maschile. Laddove uno vive la propria sconfitta con lacerante dignità ma in un ideale seguito rispetto alle vicende narrate, lei attua uno scomposto e cinico “aggiustamento”, perdendo l’altezza lirica che aveva conquistato durante tutto il libro grazie alla sua aurea ambigua e misteriosa e scende tra gli umani, rivelando per intero la posizione morale dell’autrice e confermando l’assioma fondante della storia sul significato della perdita.

lunedì 30 agosto 2010

Son vago nella mia mente



E pensarci vorrei ancora un pò
noi siamo impauriti da quest'angelo
a pensarci è così, chissà dov'è
l'utima parola che riguardava te.

Ma sei, sei, come la neve sei
che tocchi è sciolta già e non sai più dov'è
solo un'immagine che va e sei nella mia mente
sì, solo nella mia mente, solo nella mia mente
son vago nella mia mente.

(Audio 2)

giovedì 26 agosto 2010

C'è un forte rumore di niente



Esistono sensibilità superiori, sguardi che vedono più lontano. Quando li incrocio, non posso fare a meno di apprezzarli ed umilmente trarre ispirazione da quel dono che permette ad alcuni di accorgersi di cose che molti altri non vedono.

Francesco De Gregori, per esempio. Leggendo i prossimi due testi, soprattutto alla luce dell'anno in cui sono usciti, si vede come l'autore anticipi eventi con inquietante esattezza.

Bambini venite parvulos (1989)

Nessun calcolo ha nessun senso dietro questa paralisi.
Gli elementi a disposizione non consentono analisi,
e i professori dell'altro ieri stanno affrettandosi a cambiare altare.
Hanno indossato le nuove maschere e ricominciano a respirare.
Bambini venite parvulos, c'è un'ancora da tirare,
issa dal nero del mare, dal profondo del nero del mare.
Che nessun calcolo ha nessun senso e poi nessuno sa più contare.
Legalizzare la mafia sarà la regola del duemila,
sarà il carisma di Mastro Lindo a regolare la fila
e non dovremo vedere niente che non abbiamo veduto già.
Qualsiasi tipo di fallimento ha bisogno della sua claque.
Bambini venite parvulos, c'è un applauso da fare al Bau Bau,
si avvicina sorridendo, l'arrotino col suo Know-How,
venuto a prendere perline e a regalare crack.
Sabbia sulle autostrade, ruggine sulle unghie,
e limatura di ferro negli occhi, terra fra le nostre lingue.
Avrei voluto baciarti amore, ancora un poco prima di andare via.
Prima di essere scaraventati dentro questo tipo di pornografia.
Bambini venite parvulos, vale un occhio il vostro cuore,
mille dollari i vostri occhi, i vostri occhi senza dolore.
Bambini venite parvulos, sangue sotto al sole.


Rumore di Niente (1992)

L'avevi creduto davvero che avremmo parlato Esperanto?
L'avevi creduto davvero o l'avevi sperato soltanto?
Ma che tempo, e che elettricità.
Ma che tempo che è, e che tempo che sarà.
Ma che tempo farà, non lo vedi che tuona?
Non lo senti che tuona già? Non lo senti che suona?
È lontana però, sembra già più vicina,
questa musica che abbiamo sentito già.
Babbo c'è un assassino, non lo fare bussare.
Babbo c'è un indovino, non lo fare parlare.
Babbo c'è un imbianchino, vestito di nuovo,
c'è la pelle di un vecchio serpente appena uscito da un uovo.
E c'è un forte rumore di niente, un forte rumore di niente.

L'avevi creduto davvero che avremmo parlato d'amore?
L'avevi creduto davvero o l'avevi soltanto sperato col cuore?
Gli occhi oggi gridano agli occhi, e le bocche stanno a guardare
e le orecchie non vedono niente tra Babele e il Villaggio Globale.
Babbo c'è un assassino, non lo fare bussare,
babbo c'è un indovino, non lo fare parlare.
Babbo c'è un imbianchino, vestito di nuovo,
c'è la pelle di un vecchio serpente appena uscito da un uovo.
E c'è un forte rumore di niente, un forte rumore di niente.

martedì 24 agosto 2010

Umanoidi Idratati



Uno dei segnali di decadenza della nostra civiltà è l'uso delle creme idratanti. Ci secchiamo la pelle al sole, poi ce la prosciughiamo sparandoci il condizionatore in faccia. Ma poi ci idratiamo, con il nuovissimo unguento energizzante, rigenerante, rinvigorente, con i microgranuli di jojoba e i cristalli di vetro smerigliato.

Ora, anche gli uomini. Lo suggerisce anche la pubblicità: "Fai come Cannavaro, diventa anche tu un super-macho con la faccia idratata".

M'incuriosiscono soprattutto gli idratati-igenisti. Quelli che oltre che idratarsi si detergono ossessivamente le mani con quei gel disinfettanti. Prima si detergono, poi si idratano, poi si detergono di nuovo le mani imburrate di crema.
Immagino questi personaggi mentre fanno l'amore, domandandosi scusa a vicenda per una goccia di sudore di troppo, o per non aver usato il colluttorio prima di coricarsi.

Ho viaggiato in aereo per molte ore seduto a fianco di una coppia del genere. La girandola di essenze che mi si è riversata addosso per tutta la durata del viaggio è stata imbarazzante. Disumana. E poi, separati da strati e strati di idratazione deterrente, in silenzio per tutto il viaggio.

Ma quanto ci fa male la delicatezza che ci usiamo per non farci male? (Cit.)

martedì 10 agosto 2010

Da dove veniamo


[...]
In fondo viaggiare tra i vigneti, tra un bicchiere e l’altro, tra un sorso e il successivo è proprio questo. Emozionarsi, scoprire, ricordare da dove veniamo. Collegarsi alla propria sostanza senza il bisogno di esprimerlo con gesti più rumorosi che un sorriso accennato, ma pieno.

mercoledì 4 agosto 2010