mercoledì 19 ottobre 2011

A Nurri c'è un vignaiolo sulla terra


Per arrivare a Nurri, bisogna fare parecchi quarti d’ora di curve. Ad una prima occhiata sembra che non ci sia nulla, che sia vicino a questo segregato paesino della Sardegna. A parte un complesso nuragico, costruzioni dell’uomo primordiale, che si trova a Barumini, pochi minuti di strade disperse nella campagna. Quella campagna sarda che d’estate incendia i suoi colori giallo intenso e nero, ma che in una giornata ventosa sa rapire il tuo cuore e portarlo lontano. Tenerlo in ostaggio per tutta la vita in qualche “hotel Supramonte” nascosto in un anfratto della tua coscienza. A Nurri, per dire, il mio cellulare non funziona. Se si arriva a metà di una giornata estiva il senso di isolamento spazio temporale è ai massimi livelli. Nessuno per le strade. Nessun rumore. Sembra un villaggio fantasma. Ma dove sono tutti? A casa, forse. Ma possibile che dall’interno di queste case non giunga alcun suono, alcuna testimonianza di  attività vitale?

Ma non è vero che non c’è nulla qui. E’ che bisogna cercare. Occorre saper guardare.

Gianfranco Manca è figlio di questa realtà ma chiunque potrebbe scommettere qualsiasi cosa sul contrario. A cominciare dall’aspetto e poi dai modi, egli non ha alcuna connessione con ciò che si immagina dell’abitante di un posto del genere. Non esita a dichiararlo fin dalle prime battute: “io mi sento in forte contrasto con questo luogo. E da questo contrasto nasce la mia opera”.

Ama il teatro, Gianfranco, e lo insegna ai bambini delle elementari oltre che, presumibilmente, trasferirne la sensibilità ai suoi tre figli. E’ un uomo di quarantacinque anni e a prima vista sembra avere la saggezza di un anziano. Ma se ci parli un po’ rivela immediatamente l’energia e l’intransigenza di un giovane. La chiave del suo approccio al mondo sembra essere la necessità di prendere a spallate i luoghi comuni. Un Carmelo Bene prestato alla Vigna e a questa piccola parte di mondo. Non ama chi scrive di vino perché ormai “tutti scrivono di vino”. Non ama la definizione “vino del territorio” perché a suo dire non significa nulla. Il vino è dell’uomo. Fatto per il convivio, per la gioia della tavola e dello stare insieme, per la condivisione. Che senso ha metterlo sul tavolo clinico per scandirne le caratteristiche, come fosse una bestia da laboratorio? Molto meglio metterlo al centro di un tavolo di legno e chiacchierare con un bicchiere come compagno e un tagliere di formaggi e pancetta come soci in affari. Certo: accanto ad una pagnotta prodotta in casa. Nella sua inquietudine un po’ talebana mi ricorda Nanni Moretti quando attacca il critico cinematografico apparendogli in sogno e in quel modo attacca tutti i critici, tutti i “venditori di parole”. Paro qualche colpo, ma fondamentalmente mi trovo d’accordo con lui in molte cose. Solo non approvo l’assolutismo. Buttare dalla torre tutto, generalizzando per categorie, non mi è mai sembrata una soluzione.

Parliamo d’economia, delle aberrazioni del consumismo ma anche della società sarda e del mondo del vino, di colleghi con cui spesso si trova in disaccordo (ostinatamente non vuole fare nomi: mi rendo conto che un giorno non mi sarà sufficiente per conquistare la sua fiducia). Poi partiamo per la visita delle sue “proprieta” a bordo della sua Renault Kangoo. Immagino centinaia di metri di vigneti e invece sono solo cinque gli ettari di proprietà. Il motivo del tour in macchina è il frazionamento dei vigneti fra i quali si snodano le infinite curve delle strade sarde. Li guarda come fossero suoi figli. “Quello è rivolto a nord”, “quello era di mia madre”, “laggiù sto sperimentando alcune varietà tradizionali semi-sconosciute”, ogni metro quadrato ha un motivo per essere amato.

Da quest’anno c’è anche un vigneto in affitto. E’ un ettaro che pare essere un manifesto anarchico della diversità. C’è Barbera, Ciliegiolo, Montepulciano d’Abruzzo, Vernaccia, Vermentino per restare ai filari da me passati in rassegna. E poi le piante sono tenute in un incredibile stato di vegetazione spontanea. “Sto studiando, sto cercando di capire cosa vogliono le piante” - dice Gianfranco – “se il padrone del terreno vedesse i filari in questo stato di disordine impazzirebbe”. Ma Gianfranco crede nella teoria del caos e sostiene che da quelle vigne verrà fuori del buono. Che la natura sa cosa fare e l’uomo deve cercare di crearle il minimo intralcio possibile. Forse anche per questo si definisce “un vignaiolo sulla terra”. Per dare il senso dell’Uomo, piccolo ma grande, che si confronta con gli elementi dell’universo.

Al momento di assaggiare i vini è l’imbrunire e il mio interlocutore propone di cenare insieme. Con sorpresa e con piacere accetto. Capita a volte di assaggiare “i vini della linea aziendale”. Con Gianfranco è diverso. Assaggiamo “quello che ho”. Il bianco è un uvaggio di sette varietà fra cui la malvasia e il colore aranciato ci riporta al modello friulano dei bianchi lungamente macerati. In bocca è pulito. Ricco di polpa, di corpo e di alcol, lunghissimo.

La prima etichetta di Cannonau, il 2006, è stata realizzata con l’intento di dimostrare che anche un vino “biodinamico” può essere corretto dal punto di vista organolettico (ecco la giovinezza di Gianfranco: questa testarda ansia di “dimostrare”, di discutere se stesso e gli altri, di scardinare le convenzioni). Direi che la scommessa è riuscita: tutto è al posto giusto. Equilibrio, colore, un tannino fin troppo appuntito. Un vino buono, giusto, dall’anima contadina. Non posso esprimere alcuna critica a questo vino, ammetto che però non suscita le emozioni vivide dei successivi.

Il Mariposa (nome che allude alla teoria del caos e al famoso “effetto farfalla” - Mariposa è il nome spagnolo della farfalla - che esprime l'idea che anche un evento in apparenza piccolo come il battito d’ali di una farfalla possa produrre grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema) è un vino con cui Gianfranco ha voluto dimostrare a sé e al mondo che si può vinificare un Cannonau diverso. In opposizione alla presunta natura dell’uomo sardo (di cui il Cannonau tradizionale sarebbe espressione), ruvido e scuro, e in aperta polemica con la cultura machista Gianfranco voleva fare un vino gentile e femminile, con toni floreali più che terziari (cuoio, legno, ecc.). Basta con la faida, coi fucili e coi banditi. Avanti col teatro, l’arte e la sensibilità. Quel vino parla di tutto questo ed è un raro piacere cogliere nel sorso un concetto così profondo. Un punto di vista esistenziale. E’ un vino a suo modo estremo, con un alcol sorprendentemente contenuto e una ricerca della sfumatura quasi maniacale.

I due vini successivi, ancora Cannnonau in purezza, ci raccontano due interpretazioni diverse di un’annata difficile (grandine a maggio e a luglio!) in cui Gianfranco ha vinificato separatamente alcune quote riportando nell’etichetta di ciascuna bottiglia (che tipo strambo, no?) la posizione che esse avevano in cantina: “in fondo vicino al muro”, “entrando a sinistra”, ecc. Etichette volontariamente provocatorie, una chiara ricerca di astrazione dalle convenzioni. All’assaggio sono addirittura destabilizzanti. Ho più di qualche esperienza con il Cannonau (mio nonno materno era sardo) ma posso giurare che in degustazione celata non collocherei mai e poi mai questo vino in Sardegna. Lo attribuirei semmai alla Borgogna (terra a cui Gianfranco si ispira: “dove il mestiere di vignaiolo ha ancora una dignità”) di cui ha il colore e il fascino del bouquet. In bocca invece ha meno eleganza di un Pinot Noir ma non per questo risulta banale. E’ fragoroso come il nitrito di un cavallo giovane, in lampante ricerca di un percorso verso il quale orientarsi per cominciare il suo galoppo. E’ questa l’idea che mi dà tutto il lavoro di Gianfranco: un’opera che ancora non ha trovato la sua strada, che cerca a suon di prove e sbagli e lampi di indiscutibile genialità. Ne sentiremo parlare, di “Panevino”. A proposito: tra i due Cannonau del 2009 il mio preferito è quello “in fondo vicino al muro” (più spigoloso e acido ma anche, anzi proprio per questo, più affascinante). Dubito che il lettore potrà assaggiarne: ne restano solo sei bottiglie...

Gianfranco non conserva le etichette, vende ciò che ha e non ho potuto acquistare alcuna bottiglia da portare a casa per sorprendere gli amici (“assaggia e dimmi da dove viene questo vino...”). Per la prima volta nella mia vita ho salutato un vignaiolo senza introdurre alcuna bottiglia nel bagagliaio della mia auto. Ma il cuore, quello era pieno di suggestioni.

La Sardegna ancora una volta ha saputo stupirmi, insegnarmi, emozionarmi. Ora i fari dell’auto fendono il buio. Ancora curve, prima di tornare a casa. Sopra di me un memorabile tappeto di stelle.