Per arrivare a Nurri, bisogna fare
parecchi quarti d’ora di curve. Ad una prima occhiata sembra che non ci sia nulla,
che sia vicino a questo segregato paesino della Sardegna. A parte un complesso nuragico,
costruzioni dell’uomo primordiale, che si trova a Barumini, pochi minuti di
strade disperse nella campagna. Quella campagna sarda che d’estate incendia i
suoi colori giallo intenso e nero, ma che in una giornata ventosa sa rapire il
tuo cuore e portarlo lontano. Tenerlo in ostaggio per tutta la vita in qualche
“hotel Supramonte” nascosto in un anfratto della tua coscienza. A Nurri, per
dire, il mio cellulare non funziona. Se si arriva a metà di una giornata estiva
il senso di isolamento spazio temporale è ai massimi livelli. Nessuno per le
strade. Nessun rumore. Sembra un villaggio fantasma. Ma dove sono tutti? A
casa, forse. Ma possibile che dall’interno di queste case non giunga alcun
suono, alcuna testimonianza di attività
vitale?
Ma non è vero che non c’è nulla qui.
E’ che bisogna cercare. Occorre saper guardare.
Gianfranco Manca è figlio di questa
realtà ma chiunque potrebbe scommettere qualsiasi cosa sul contrario. A
cominciare dall’aspetto e poi dai modi, egli non ha alcuna connessione con ciò
che si immagina dell’abitante di un posto del genere. Non esita a dichiararlo
fin dalle prime battute: “io mi sento in
forte contrasto con questo luogo. E da questo contrasto nasce la mia opera”.
Ama il teatro, Gianfranco, e lo
insegna ai bambini delle elementari oltre che, presumibilmente, trasferirne la
sensibilità ai suoi tre figli. E’ un uomo di quarantacinque anni e a prima
vista sembra avere la saggezza di un anziano. Ma se ci parli un po’ rivela
immediatamente l’energia e l’intransigenza di un giovane. La chiave del suo
approccio al mondo sembra essere la necessità di prendere a spallate i luoghi
comuni. Un Carmelo Bene prestato alla Vigna e a questa piccola parte di mondo.
Non ama chi scrive di vino perché ormai “tutti scrivono di vino”. Non ama la
definizione “vino del territorio” perché a suo dire non significa nulla. Il
vino è dell’uomo. Fatto per il convivio, per la gioia della tavola e dello
stare insieme, per la condivisione. Che senso ha metterlo sul tavolo clinico
per scandirne le caratteristiche, come fosse una bestia da laboratorio? Molto
meglio metterlo al centro di un tavolo di legno e chiacchierare con un
bicchiere come compagno e un tagliere di formaggi e pancetta come soci in
affari. Certo: accanto ad una pagnotta prodotta in casa. Nella sua inquietudine
un po’ talebana mi ricorda Nanni Moretti quando attacca il critico
cinematografico apparendogli in sogno e in quel modo attacca tutti i critici,
tutti i “venditori di parole”. Paro qualche colpo, ma fondamentalmente mi trovo
d’accordo con lui in molte cose. Solo non approvo l’assolutismo. Buttare dalla
torre tutto, generalizzando per categorie, non mi è mai sembrata una soluzione.
Parliamo d’economia, delle
aberrazioni del consumismo ma anche della società sarda e del mondo del vino,
di colleghi con cui spesso si trova in disaccordo (ostinatamente non vuole fare
nomi: mi rendo conto che un giorno non mi sarà sufficiente per conquistare la
sua fiducia). Poi partiamo per la visita delle sue “proprieta” a bordo della
sua Renault Kangoo. Immagino centinaia di metri di vigneti e invece sono solo
cinque gli ettari di proprietà. Il motivo del tour in macchina è il
frazionamento dei vigneti fra i quali si snodano le infinite curve delle strade
sarde. Li guarda come fossero suoi figli. “Quello
è rivolto a nord”, “quello era di mia
madre”, “laggiù sto sperimentando
alcune varietà tradizionali semi-sconosciute”, ogni metro quadrato ha un
motivo per essere amato.
Da quest’anno c’è anche un vigneto
in affitto. E’ un ettaro che pare essere un manifesto anarchico della diversità.
C’è Barbera, Ciliegiolo, Montepulciano d’Abruzzo, Vernaccia, Vermentino per
restare ai filari da me passati in rassegna. E poi le piante sono tenute in un
incredibile stato di vegetazione spontanea. “Sto studiando, sto cercando di capire cosa vogliono le piante” -
dice Gianfranco – “se il padrone del
terreno vedesse i filari in questo stato di disordine impazzirebbe”. Ma
Gianfranco crede nella teoria del caos e sostiene che da quelle vigne verrà
fuori del buono. Che la natura sa cosa fare e l’uomo deve cercare di crearle il
minimo intralcio possibile. Forse anche per questo si definisce “un vignaiolo
sulla terra”. Per dare il senso dell’Uomo, piccolo ma grande, che si confronta
con gli elementi dell’universo.
Al momento di assaggiare i vini è
l’imbrunire e il mio interlocutore propone di cenare insieme. Con sorpresa e
con piacere accetto. Capita a volte di assaggiare “i vini della linea
aziendale”. Con Gianfranco è diverso. Assaggiamo “quello che ho”. Il bianco è
un uvaggio di sette varietà fra cui la malvasia e il colore aranciato ci
riporta al modello friulano dei bianchi lungamente macerati. In bocca è pulito.
Ricco di polpa, di corpo e di alcol, lunghissimo.
La prima etichetta di Cannonau, il
2006, è stata realizzata con l’intento di dimostrare che anche un vino
“biodinamico” può essere corretto dal punto di vista organolettico (ecco la giovinezza
di Gianfranco: questa testarda ansia di “dimostrare”, di discutere se stesso e
gli altri, di scardinare le convenzioni). Direi che la scommessa è riuscita:
tutto è al posto giusto. Equilibrio, colore, un tannino fin troppo appuntito.
Un vino buono, giusto, dall’anima contadina. Non posso esprimere alcuna critica
a questo vino, ammetto che però non suscita le emozioni vivide dei successivi.
Il Mariposa (nome che allude alla
teoria del caos e al famoso “effetto farfalla” - Mariposa è il nome spagnolo
della farfalla - che esprime l'idea che anche un evento in apparenza piccolo
come il battito d’ali di una farfalla possa produrre grandi variazioni nel
comportamento a lungo termine di un sistema) è un vino con cui Gianfranco ha
voluto dimostrare a sé e al mondo che si può vinificare un Cannonau diverso. In
opposizione alla presunta natura dell’uomo sardo (di cui il Cannonau
tradizionale sarebbe espressione), ruvido e scuro, e in aperta polemica con la
cultura machista Gianfranco voleva fare un vino gentile e femminile, con toni
floreali più che terziari (cuoio, legno, ecc.). Basta con la faida, coi fucili
e coi banditi. Avanti col teatro, l’arte e la sensibilità. Quel vino parla di
tutto questo ed è un raro piacere cogliere nel sorso un concetto così profondo.
Un punto di vista esistenziale. E’ un vino a suo modo estremo, con un alcol
sorprendentemente contenuto e una ricerca della sfumatura quasi maniacale.
I due vini successivi, ancora
Cannnonau in purezza, ci raccontano due interpretazioni diverse di un’annata
difficile (grandine a maggio e a luglio!) in cui Gianfranco ha vinificato
separatamente alcune quote riportando nell’etichetta di ciascuna bottiglia (che
tipo strambo, no?) la posizione che esse avevano in cantina: “in fondo vicino
al muro”, “entrando a sinistra”, ecc. Etichette volontariamente provocatorie,
una chiara ricerca di astrazione dalle convenzioni. All’assaggio sono
addirittura destabilizzanti. Ho più di qualche esperienza con il Cannonau (mio
nonno materno era sardo) ma posso giurare che in degustazione celata non
collocherei mai e poi mai questo vino in Sardegna. Lo attribuirei semmai alla
Borgogna (terra a cui Gianfranco si ispira: “dove il mestiere di vignaiolo ha ancora una dignità”) di cui ha il
colore e il fascino del bouquet. In bocca invece ha meno eleganza di un Pinot
Noir ma non per questo risulta banale. E’ fragoroso come il nitrito di un
cavallo giovane, in lampante ricerca di un percorso verso il quale orientarsi
per cominciare il suo galoppo. E’ questa l’idea che mi dà tutto il lavoro di
Gianfranco: un’opera che ancora non ha trovato la sua strada, che cerca a suon
di prove e sbagli e lampi di indiscutibile genialità. Ne sentiremo parlare, di
“Panevino”. A proposito: tra i due Cannonau del 2009 il mio preferito è quello
“in fondo vicino al muro” (più spigoloso e acido ma anche, anzi proprio per
questo, più affascinante). Dubito che il lettore potrà assaggiarne: ne restano
solo sei bottiglie...
Gianfranco non conserva le
etichette, vende ciò che ha e non ho potuto acquistare alcuna bottiglia da
portare a casa per sorprendere gli amici (“assaggia
e dimmi da dove viene questo vino...”). Per la prima volta nella mia vita
ho salutato un vignaiolo senza introdurre alcuna bottiglia nel bagagliaio della
mia auto. Ma il cuore, quello era pieno di suggestioni.
La Sardegna ancora una volta ha
saputo stupirmi, insegnarmi, emozionarmi. Ora i fari dell’auto fendono il buio.
Ancora curve, prima di tornare a casa. Sopra di me un memorabile tappeto di
stelle.