sabato 31 dicembre 2011

Educatore & Refrattario


Stare a tavola con amici e parenti non è mai così frequente come nel periodo delle feste. Durante le maratone caloriche che in quei giorni vengono allestite con zelo quasi sadico da massaie improvvisate e forzati del revanscismo usi a brandire la Tradizione come un'arma, mi isolo sempre più ad osservare i comportamenti altrui. Bevono vini imbarazzanti in bicchieri di fortuna, dalle bizzarre forme ai materiali più impensati. Calici e tazze di plastica, vetro smerigliato, cioccolata. Non gustano, trangugiano. Non ascoltano nulla, credono che il vino sia un liquido di vago colore rosso o bianco che dà alla testa quando se ne beve troppo. Insomma, qualcosa di vagamente minaccioso (e giù a dare dell'alcolizzato – così, per scherzo – a chi si versa un goccio con un entusiasmo appena al di sopra della media). “Per l'amor di Dio, non bere che devi guidare!” Tra cinque ore, ma che importa? Non bere.

Di fronte a questi modi mi sono scoperto ad assumere alternativamente due comportamenti opposti, l'Educatore e il Refrattario. In entrambi finisco per sentirmi inadeguato: il vino andrebbe condiviso e basta. Ma accorgermi che per molti ha la stessa dignità della saponetta del bidet mi trasforma automaticamente in un evangelista. Si dedica così tanta attenzione al cibo! Ci si scambiano ricette, esperienze, opinioni. Vino, birra, distillati invece vengono scaricati in poche occhiate e confinati ad essere oggetto dell'attenzione di "esperti". Mi sembra di poter sentire i commenti tutti uguali di cento, mille tavole imbandite all'ombra dell'albero di Natale:
mmmhhh.... non male questo vino. Cos'è?
“Boh? Non lo so. L'ha portato Valerio
(prende la bottiglia e legge l'etichetta) - “Ah, Nero d'Avola. Dicevo che era buono”.

Quanto Nero d'Avola e Chianti e Valpolicella ho visto e assaggiato su quei tavoli. Acquistati per tre euro e mezzo al supermercato oppure appartenenti a qualche cesto natalizio i vini insipidi non farebbero drizzare un pelo neppure a chi li ha prodotti.

L'Educatore è il professorino della serata. Attira su di sé stima e sarcasmo in proporzioni uguali mentre tenta di spiegare i rudimenti della degustazione, il fatto che il vino va annusato – si, avete capito bene: annusato! Mettete dentro il bicchiere quella protuberanza avente doppia foratura che vi ritrovate in mezzo al cranio, esiste proprio per quello! - ed apprezzato usando i sensi. Quando l'Educatore si lancia a citare alcuni degli aromi che gli sembra di percepire all'olfatto, gli astanti spalancano gli occhioni. Mi squadrano come fossi uno sciamano che estrae per divinazione gli elementi dal bicchiere (ciliegia! Pesca gialla! Pietra focaia! La sala ulula: ooooohhh...). Molti allentano risatine scettiche, pensano che stia inventando tutto, che sia impossibile trovare simili richiami in un bicchiere (e lo è certamente, nei vini cui sono abituati). Che la sceneggiata miri a far colpo sulle signore e guadagnar la stima degli esemplari maschi. Alcuni pensano tra sé “ecco il solito fissato” (ce n'è uno ad ogni cena e non esita a manifestare i propri pavoneggiamenti). Io invece oscillo tra l'orgoglio di suscitare almeno in qualcuno il dubbio che occorra maggiore attenzione all'approccio e più rispetto per i prodotti e la tentazione di mandare tutti al diavolo: che continuino a crogiolarsi nelle proprie abitudini sconciamente asensoriali.

E' allora che si affaccia sulla scena il Refrattario. Stanco di trascinare le redini dell'ignoranza del genere umano, il sacro Intellettuale del palato depone le armi e sale sull'Aventino della sensorialità. Mi chiedono di “pensare al vino” per la cena a casa di Giorgia in cui “tutti portano qualcosa”? Potrei far assaggiare quell'ottimo Chianti scoperto di recente, oppure un sublime Valpolicella di cui tengo sempre in cantina qualche bottiglia, o il Nero d'Avola più sorprendente e affascinante. Ma a che scopo? Verrebbero umiliati in bicchieri di carta e bevuti in abbinamento col panettone. Nessuno tenterebbe di scoprire quale produttore ha operato una maturazione così lunga e coraggiosa e un dibattito sul contributo del calcare al gusto del vino farebbe meno proseliti di una lezione di geometria e algebra sulla tivvù notturna. Vi porto un bianco profumato di vaniglia e voilà. Quanto a me quella sera berrò chinotto.
Quando invece sono io ad ospitare gli altri e qualcuno porta uno spumante industriale non richiesto, il Refrattario si preoccuperà di spacciare copiose dosi del suddetto al mittente, il quale ne verrà saturato e declinerà i successivi assaggi da bottiglie di qualità. Ami lo “spumantino” e il “prosecchino”? Tieni, allora. Beviteli. Un altro goccino?

So che raccontando queste esperienze corro il rischio di apparire elitario. Vanitoso. Intransigente. Ma qui si parla di amore! Insomma, chi assisterebbe senza opporsi all'indifferenza generalizzata verso qualcosa che ama? Provate ad ascoltare una sonata di Bach in presenza di un amante del pianoforte e, durante l'esecuzione, alzate il volume della televisione che trasmette un quiz a premi. Andate al cinema e piazzatevi davanti a quell'occhialuto un po' fissato. Nel bel mezzo della scena madre dell'attesissimo film di Lars Von Trier alzatevi in piedi e applaudite sguaiatamente. In pieno monologo dell'Otello accendete, al centro del teatro gremito, una radio che trasmette il derby. Illuminate male un quadro ad una mostra, date ad un cantante un microfono gracchiante, ad uno scrittore una penna spuntata. Perché per il vino dovrebbe essere diverso?

La disattenzione verso la degustazione suscita maggior disagio ed appare ancora più colpevole in Italia. Siamo un popolo che trae non solo la propria storia ma l'identità di sé dalla cultura e la tradizione eno-gastronomica. Ignorare il vino, gli italiani, proprio non possono permetterselo.

Quest'amnesia deve far parte di uno smarrimento collettivo, pensano l'Educatore e il Refrattario accostandosi al bicchiere e ricordando uomini del passato come Veronelli e Soldati che vissero il gusto come un'arte di cui vivere e raccontare.

La nostra generazione può fare ancora molto.

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A scanso di equivoci preciso che il tono dell'articolo è volutamente grottesco e ironico (ed auto ironico), che non sono solito trattare male i miei ospiti - come sa chiunque abbia frequentato casa mia - che non conta quanto si spenda per un vino ma il livello di consapevolezza con cui lo si fa e che ogni riferimento a cose, fatti o persone è puramente casuale.
L'intento che anima il testo, lungi dal voler offendere, è quello di rivendicare, per il vino, lo stesso rispetto che viene riconosciuto ad altri ambiti dell'arte umana e ad altre passioni.

mercoledì 19 ottobre 2011

A Nurri c'è un vignaiolo sulla terra


Per arrivare a Nurri, bisogna fare parecchi quarti d’ora di curve. Ad una prima occhiata sembra che non ci sia nulla, che sia vicino a questo segregato paesino della Sardegna. A parte un complesso nuragico, costruzioni dell’uomo primordiale, che si trova a Barumini, pochi minuti di strade disperse nella campagna. Quella campagna sarda che d’estate incendia i suoi colori giallo intenso e nero, ma che in una giornata ventosa sa rapire il tuo cuore e portarlo lontano. Tenerlo in ostaggio per tutta la vita in qualche “hotel Supramonte” nascosto in un anfratto della tua coscienza. A Nurri, per dire, il mio cellulare non funziona. Se si arriva a metà di una giornata estiva il senso di isolamento spazio temporale è ai massimi livelli. Nessuno per le strade. Nessun rumore. Sembra un villaggio fantasma. Ma dove sono tutti? A casa, forse. Ma possibile che dall’interno di queste case non giunga alcun suono, alcuna testimonianza di  attività vitale?

Ma non è vero che non c’è nulla qui. E’ che bisogna cercare. Occorre saper guardare.

Gianfranco Manca è figlio di questa realtà ma chiunque potrebbe scommettere qualsiasi cosa sul contrario. A cominciare dall’aspetto e poi dai modi, egli non ha alcuna connessione con ciò che si immagina dell’abitante di un posto del genere. Non esita a dichiararlo fin dalle prime battute: “io mi sento in forte contrasto con questo luogo. E da questo contrasto nasce la mia opera”.

Ama il teatro, Gianfranco, e lo insegna ai bambini delle elementari oltre che, presumibilmente, trasferirne la sensibilità ai suoi tre figli. E’ un uomo di quarantacinque anni e a prima vista sembra avere la saggezza di un anziano. Ma se ci parli un po’ rivela immediatamente l’energia e l’intransigenza di un giovane. La chiave del suo approccio al mondo sembra essere la necessità di prendere a spallate i luoghi comuni. Un Carmelo Bene prestato alla Vigna e a questa piccola parte di mondo. Non ama chi scrive di vino perché ormai “tutti scrivono di vino”. Non ama la definizione “vino del territorio” perché a suo dire non significa nulla. Il vino è dell’uomo. Fatto per il convivio, per la gioia della tavola e dello stare insieme, per la condivisione. Che senso ha metterlo sul tavolo clinico per scandirne le caratteristiche, come fosse una bestia da laboratorio? Molto meglio metterlo al centro di un tavolo di legno e chiacchierare con un bicchiere come compagno e un tagliere di formaggi e pancetta come soci in affari. Certo: accanto ad una pagnotta prodotta in casa. Nella sua inquietudine un po’ talebana mi ricorda Nanni Moretti quando attacca il critico cinematografico apparendogli in sogno e in quel modo attacca tutti i critici, tutti i “venditori di parole”. Paro qualche colpo, ma fondamentalmente mi trovo d’accordo con lui in molte cose. Solo non approvo l’assolutismo. Buttare dalla torre tutto, generalizzando per categorie, non mi è mai sembrata una soluzione.

Parliamo d’economia, delle aberrazioni del consumismo ma anche della società sarda e del mondo del vino, di colleghi con cui spesso si trova in disaccordo (ostinatamente non vuole fare nomi: mi rendo conto che un giorno non mi sarà sufficiente per conquistare la sua fiducia). Poi partiamo per la visita delle sue “proprieta” a bordo della sua Renault Kangoo. Immagino centinaia di metri di vigneti e invece sono solo cinque gli ettari di proprietà. Il motivo del tour in macchina è il frazionamento dei vigneti fra i quali si snodano le infinite curve delle strade sarde. Li guarda come fossero suoi figli. “Quello è rivolto a nord”, “quello era di mia madre”, “laggiù sto sperimentando alcune varietà tradizionali semi-sconosciute”, ogni metro quadrato ha un motivo per essere amato.

Da quest’anno c’è anche un vigneto in affitto. E’ un ettaro che pare essere un manifesto anarchico della diversità. C’è Barbera, Ciliegiolo, Montepulciano d’Abruzzo, Vernaccia, Vermentino per restare ai filari da me passati in rassegna. E poi le piante sono tenute in un incredibile stato di vegetazione spontanea. “Sto studiando, sto cercando di capire cosa vogliono le piante” - dice Gianfranco – “se il padrone del terreno vedesse i filari in questo stato di disordine impazzirebbe”. Ma Gianfranco crede nella teoria del caos e sostiene che da quelle vigne verrà fuori del buono. Che la natura sa cosa fare e l’uomo deve cercare di crearle il minimo intralcio possibile. Forse anche per questo si definisce “un vignaiolo sulla terra”. Per dare il senso dell’Uomo, piccolo ma grande, che si confronta con gli elementi dell’universo.

Al momento di assaggiare i vini è l’imbrunire e il mio interlocutore propone di cenare insieme. Con sorpresa e con piacere accetto. Capita a volte di assaggiare “i vini della linea aziendale”. Con Gianfranco è diverso. Assaggiamo “quello che ho”. Il bianco è un uvaggio di sette varietà fra cui la malvasia e il colore aranciato ci riporta al modello friulano dei bianchi lungamente macerati. In bocca è pulito. Ricco di polpa, di corpo e di alcol, lunghissimo.

La prima etichetta di Cannonau, il 2006, è stata realizzata con l’intento di dimostrare che anche un vino “biodinamico” può essere corretto dal punto di vista organolettico (ecco la giovinezza di Gianfranco: questa testarda ansia di “dimostrare”, di discutere se stesso e gli altri, di scardinare le convenzioni). Direi che la scommessa è riuscita: tutto è al posto giusto. Equilibrio, colore, un tannino fin troppo appuntito. Un vino buono, giusto, dall’anima contadina. Non posso esprimere alcuna critica a questo vino, ammetto che però non suscita le emozioni vivide dei successivi.

Il Mariposa (nome che allude alla teoria del caos e al famoso “effetto farfalla” - Mariposa è il nome spagnolo della farfalla - che esprime l'idea che anche un evento in apparenza piccolo come il battito d’ali di una farfalla possa produrre grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema) è un vino con cui Gianfranco ha voluto dimostrare a sé e al mondo che si può vinificare un Cannonau diverso. In opposizione alla presunta natura dell’uomo sardo (di cui il Cannonau tradizionale sarebbe espressione), ruvido e scuro, e in aperta polemica con la cultura machista Gianfranco voleva fare un vino gentile e femminile, con toni floreali più che terziari (cuoio, legno, ecc.). Basta con la faida, coi fucili e coi banditi. Avanti col teatro, l’arte e la sensibilità. Quel vino parla di tutto questo ed è un raro piacere cogliere nel sorso un concetto così profondo. Un punto di vista esistenziale. E’ un vino a suo modo estremo, con un alcol sorprendentemente contenuto e una ricerca della sfumatura quasi maniacale.

I due vini successivi, ancora Cannnonau in purezza, ci raccontano due interpretazioni diverse di un’annata difficile (grandine a maggio e a luglio!) in cui Gianfranco ha vinificato separatamente alcune quote riportando nell’etichetta di ciascuna bottiglia (che tipo strambo, no?) la posizione che esse avevano in cantina: “in fondo vicino al muro”, “entrando a sinistra”, ecc. Etichette volontariamente provocatorie, una chiara ricerca di astrazione dalle convenzioni. All’assaggio sono addirittura destabilizzanti. Ho più di qualche esperienza con il Cannonau (mio nonno materno era sardo) ma posso giurare che in degustazione celata non collocherei mai e poi mai questo vino in Sardegna. Lo attribuirei semmai alla Borgogna (terra a cui Gianfranco si ispira: “dove il mestiere di vignaiolo ha ancora una dignità”) di cui ha il colore e il fascino del bouquet. In bocca invece ha meno eleganza di un Pinot Noir ma non per questo risulta banale. E’ fragoroso come il nitrito di un cavallo giovane, in lampante ricerca di un percorso verso il quale orientarsi per cominciare il suo galoppo. E’ questa l’idea che mi dà tutto il lavoro di Gianfranco: un’opera che ancora non ha trovato la sua strada, che cerca a suon di prove e sbagli e lampi di indiscutibile genialità. Ne sentiremo parlare, di “Panevino”. A proposito: tra i due Cannonau del 2009 il mio preferito è quello “in fondo vicino al muro” (più spigoloso e acido ma anche, anzi proprio per questo, più affascinante). Dubito che il lettore potrà assaggiarne: ne restano solo sei bottiglie...

Gianfranco non conserva le etichette, vende ciò che ha e non ho potuto acquistare alcuna bottiglia da portare a casa per sorprendere gli amici (“assaggia e dimmi da dove viene questo vino...”). Per la prima volta nella mia vita ho salutato un vignaiolo senza introdurre alcuna bottiglia nel bagagliaio della mia auto. Ma il cuore, quello era pieno di suggestioni.

La Sardegna ancora una volta ha saputo stupirmi, insegnarmi, emozionarmi. Ora i fari dell’auto fendono il buio. Ancora curve, prima di tornare a casa. Sopra di me un memorabile tappeto di stelle.



giovedì 22 settembre 2011

Non verrà come tu vuoi, né quando


La pioggia non verrà come tu vuoi 
né quando,
e non esiste tempo 
che possa ricalcarsi come stampo. 

Se acqua ci sarà 
non potrai mai saperlo. 
Sarà già molto se ti fai trovare 
pronto, per dissodare il campo. 

Così come s’incide 
su pelle e mani di chi va per mare, 
troverà vento e vita
solo la vela che saprai spiegare. 

Non ti sia dato mai ciò che ti aspetti, 
e che ti sembra giusto 
in tale forma e luogo e tempo, 
e avrai dell’esistenza qualche gusto.

lunedì 8 agosto 2011

Roma in agosto



Una città bella da schiantare l’anima non sopravvive a lungo sotto il traffico. Non resiste alla pressione dell’ignoranza, all’assedio della prepotenza. Alla sporcizia, al rumore, al quotidiano ed instancabile ritmo delle automobili. Parcheggiate ovunque. Le persone ostaggio del caos finiscono per rintanarsi come topi, in percorsi sotterranei, in tane con finestre chiuse e porte blindate. Quante volte si vorrebbe raggiungere un punto della città ma si desiste dall’obiettivo solo perché il traffico lo impedisce? Non te ne accorgi perché si fa l’abitudine a tutto, ma non riesci a vivere la città come vorresti.

Che fine ha fatto Roma?

In agosto, invece, la città si spoglia. Oppure si veste, a seconda dei punti di vista. E l’abito che indossa è pieno del fascino di un lungo respiro dopo l’apnea. Per strada riesci a percepire suoni che ti sono negati il resto dell’anno. Campane - suonano anche negli altri mesi, ne sono certo - scandiscono le ore e fanno da sfondo a voci che si chiamano o si meravigliano. Uccelli sugli alberi del lungotevere sembrano invitare ad affacciarsi sul fiume. Senti odori non più coperti dallo smog ed è la cucina di qualche primo piano oppure la legna dei forni delle pizzerie che richiamano la tua attenzione al pari del dopobarba o il deodorante di un passante. E gli uomini e le donne riprendono possesso del territorio. Li vedi camminare per strada prima timidamente poi con impeto liberatorio. Si guardano intorno stupiti, come farebbe l’ultimo uomo sulla terra camminando tra le macerie di un mondo che si è ormai autodistrutto.

Guardo i turisti e penso a quelli di loro che arrivano per la prima volta. Cosa penseranno di questo luogo? Crederanno che sia così in ogni periodo dell’anno? Che si possa attraversare via Merulana così, senza alcun rischio? Che si possa decidere su due piedi di cenare a Trastevere di sabato sera? Che si possa andare ad un cinema qualsiasi e parcheggiare davanti alla sala, a cinque minuti dall’inizio del film?

Certo, qualche volta ad agosto fa caldo. Ma è un caldo ch’è presagio o reminiscenza di vacanze imminenti o appena concluse. Che scopre le spalle abbronzate delle donne e spinge a cenare all’aperto.

E soprattutto a Roma in agosto c’è quell’atmosfera di incontri fortuiti, di rimpatriate, di cene con un amico o un’amica rimasti casualmente in città nello stesso periodo. Un’aria di sospensione che illude, che sembra prospettare possibilità inaspettate. E c’è gente che viene a trovare altra gente e si stabilisce per un po’ a casa. E c’è la fine delle storie d’amore da annegare in qualche bar e l’inizio di un rapporto da raccontare oppure da sognare. Quanti tavolini fanno da set a corteggiamenti più o meno conclamati. La città che si spoglia o si veste accoglie tutti fra le sue pieghe morbide e calde e sembra incoraggiare il romanticismo; lo stesso che, lungi dall’esserne indifferente, qualcuno evocava tempo fa, pregandola: “Roma, nun fa’ la stupida stasera... damme ‘na mano a faje dì de’ si”.

venerdì 6 maggio 2011

Viaggio nel posto in cui trovar se stesso



Si passa attraverso un bosco silenzioso, sprofondato nella nebbia, perso nel tempo e un paese sospeso nella Maremma, trapassati entrambi da una strada troppo stretta per due macchine, tortuosa come lo erano le strade di montagna percorse da qualche raro carro di tanti anni fa. Si arriva nel luogo dove “Armonia” è la parola chiave per fondersi con l’ambiente. L’azienda biodinamica partorita dalla mente visionaria di Daniele Mazzanti e condotta insieme a sua moglie Vilma. Lui animato dagli ideali beat degli anni settanta, lei mente razionale acuta e sempre presente. La quadratura del cerchio.

Settanta ettari da usare per mettersi in sintonia con se stessi. Lo si fa attraverso gli elementi che compongono l’universo. La terra che partorisce i prodotti per il sostentamento (ciclo chiuso: tutto ciò che serve si produce e si consuma all’interno dell’ecosistema) e impolvera la pelle, l’aria che fruscia tra gli arbusti del bosco di cerri, il fuoco ch’è nei muscoli di cavalli liberi montati senza sella ma anche fra i fornelli dell’abile cuoca sarda, l’acqua che dalla profondità del suolo la testardaggine ha saputo scovare (180m di perforazione, mica bazzecole) per uso agricolo e che oggi irrora splendide terme di pietra a basso impatto ambientale. A ciascuno l’elemento più affine.

Un posto in cui può capitare di trovare parti di sé smarrite fra i nodi della vita quotidiana. Perché l’armonia che è alla base del progetto in qualche modo passa, contagia, avviluppa le persone predisposte all’ascolto. E’ così che i venti dipendenti di Daniele e Vilma hanno deciso di aderire alla “visione”, lasciando in alcuni casi impieghi più remunerativi.

Anche la vite trova spazio in questo habitat: il vino ha tre espressioni. Un Vermentino schietto e di facile beva. Il Solatìo igt, maggioranza Sangiovese, che si fa apprezzare per la rusticità verace e per il carattere (straordinaria la versione “sfusa” che accompagna i pranzi più semplici) e poi il Rio de’ Messi igt, Cabernet Sauvignon 80% con saldo di Merlot, che conferma la vocazione di questa zona della Toscana al Cabernet Sauvignon. E’ infatti questo il vino largamente più elegante e significativo dell’azienda, nonostante la relativa gioventù della vigna (circa quattordici anni): il 2006 esprime un naso fruttato scuro come la prugna e il mirtillo ma anche tonalità più severe di sottobosco e una sfumatura di inchiostro. In bocca è suadente, rotondo senza ammiccare, puntellato dalla buona sapidità e un tannino che lascia immaginare un fulgido avvenire. Lo stesso che noi immaginiamo per Daniele, Vilma e i loro due figli se sceglieranno, come tutto lascia credere, la strada della tutela orgogliosa di questo posto unico.

Az. Agr. La Cerreta
Località Pian delle Vigne - 57020 - Sassetta (Li)

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giovedì 28 aprile 2011

L'uomo che fu: il vinaio a domicilio



E’ necessario essere un po’ in là con gli anni per ricordare i tanti personaggi che si affacciavano all’uscio delle case proponendo vendite e servizi di ogni genere. Il calzolaio, il maniscalco, l’arrotino, il pastore che portava in città pecorini e caciotte, il calabrese che vendeva le conserve. Il vinaio.

Si, c’era anche il vinaio. E la notizia è che c’è ancora.

Giorgio, il vinaio a domicilio che citofona, chiede “serve vino?”, sale con botticella al seguito e riempie le bottiglie di “bianco o rosso” sfuso, da bere presto perché altrimenti acetizza. Un vino imbarazzante per tanti appassionati abituati a confrontarsi con produzioni di ben altra classe. Invece Giorgio vende vino da un euro al litro e prima delle feste propone, in bottiglie di vetro più pesante e costoso, una versione rifermentata. Vuoto “a rendere”, s’intende.

Non solo l’arrotino, quindi, diventato ormai mitico per il suo annuncio gridato per le strade come l’urlo di un passato che non vuol rassegnarsi ad esser soffocato dalla modernità. “E’ arrivato l’arrotinoooooo....”.
Da oggi possiamo aggiungere che è arrivato pure il vinaio. La cosa interessante non è il vino che egli propone, bensì il mestiere di questo uomo antico ma moderno - Giorgio è tecnologico: gestisce i clienti con lo smart phone e, se glielo chiedi, saprà illustrarti i più convenienti investimenti in Borsa - che riesce a sopravvivere negli anni. I servigi del vinaio a domicilio si tramandano tra parenti, come accadeva con la servitù o gli stallieri. Gli uomini di fiducia insomma. Questa sopravvivenza ci parla di un “bisogno” che esiste anche nel tempo dell’e-commerce e che Giorgio e quelli come lui (la vendita a domicilio si fa anche a Parigi) soddisfano con la loro proposta, basata sul rapporto umano di fiducia che evidentemente il commercio elettronico non riesce a scalzare completamente.
E chissà che prima o poi qualcuno non immagini di allargare l’offerta, ed oltre ai blandi vini e olii sfusi proponga una vera enoteca a domicilio. Sarebbe in elegantissimo completo scuro, con tastevin al collo e griderebbe: “E’ arrivato il sommelieeeeeer!!!!!!!!”.

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lunedì 11 aprile 2011

Primati tatuati

Ero in treno e ho dovuto assistere, come altri viaggiatori, allo spettacolo allucinante di un gruppetto di energumeni (sulla trentina, mica giovanissimi!) reduci dal Vinitaly che secondo alcuni (troppi) è un posto dove andare ad ubriacarsi a buon mercato(*). Urlavano, bevevano, importunavano le donne e sferzavano il controllore, il quale - sollecitato dagli altri passeggeri esasperati - andava a chiedere il rispetto del luogo. La scena mi ha innervosito ma anche ispirato.

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(*) secondo me è anche lecito chiedersene il motivo. Non sarà forse (sottolineo forse) che quello della fiera gigantesca e mainstream non è il modo giusto di concepire, vivere e presentare il vino?



Quello che mi spaventa
è il ghigno da uomo stupido
di chi mi siede di fronte;
vestito in fondo di niente
anche s’è firmatissimo il suo presente,
ma ciò che spoglia è l’assenza di domande.

Quello che mi deprime
è l’assoluta assenza di spessore,
come ombre opache dal televisore,
di scimmie che si spostano in gruppo
e parlano di niente come tutto,
e poi pensare che non cambiano

come non cambia questo posto,
e che in un certo senso è questo
un bell’indicatore di contesto,
che nelle facce si riflette a volte
un tipo di malessere comune,
un assoluto vuoto di ragione.

Quello che m’indispone
è quell’atteggiamento da primati,
poco pelosi e molto tatuati,
di piccoli grandi fratelli
che l’unico linguaggio che comprendono
non è dei libri, ma quello dei randelli.

E’ allora che mi prende una vergogna
e il senso di tristezza più profonda
perché civile, prima ancora che bandiera,
è un codice del vivere comune
se non c’è il quale tutto quanto muore.

E si procede adesso a testa bassa
sulla via ch’è propria del crepuscolo,
se il vertice è in cancrena
e ciò che è sotto
o scende a patti, o scrive versi,
o è pari a questo.

lunedì 4 aprile 2011

Il richiamo antico del mercato rionale


C’è un quartiere che frequento per lavoro che ha vari motivi di fascino. Uno di questi è la folta presenza di locali di ogni tipo. Ristoranti, osterie, bar, pizzerie ma anche gallerie d’arte e oggetti di arredo. Si possono assaggiare i piatti più disparati, scegliendo in base all’estro del momento fra pizza napoletana doc, crèpe, sushi oppure arancine siciliane e poi pasticceria, gelati, pastasciutta o gulash. Sono tanti gli impiegati e i professionisti che all’ora di pranzo affollano, con le loro giacche e cravatte, i tavolini apparecchiati con tovaglie di ogni colore.

Eppure io, di tanto in tanto, amo prendere un panino al mercato rionale. Si, uno di quei mercati di quartiere che trent’anni fa erano il luogo prevalente per fare la spesa, abitudine quotidiana invece che settimanale come accade più spesso oggi. Pesce e carne freschi e poi il pane, da comprare ogni giorno dal panettiere di fiducia, e il latte in “latteria”. Una volta nel mercato rionale coperto c’era pure il vinaio, che ti riempiva la bottiglia oppure la damigiana. A volte vendeva pure l’olio e aveva la pizza bianca bassa e croccante. La potevi mangiare se volevi un bicchiere di vino da assaggiare prima di comprare.

Scelgo il panino dal fornaio e poi passo dal salumiere e seguo le suggestioni della vetrina, chiedendo di farcire il pane con un affettato sempre diverso e poi del formaggio oppure altro. Tonno fresco, verdure grigliate. Non c’è limite alla fantasia ed ogni volta è un nuovo accostamento. E mentre sono lì che guardo affettare il prosciutto sento i suoni antichi del mercato rimbombare sotto il soffitto altissimo di vetro e cemento. Urla di richiamo, canzoni fischiettate da venditori che spostano cassette di frutta, discussioni sui risultati dell’ultima partita. E soprattutto sento gli odori forti del cibo che si mischiano fra loro. Un teatro umano nel quale proiettarsi per staccare, davvero, dalla monotonia asettica di un ufficio.

Ma ecco che la signora mi porge il ricco panino. “So’ tre euro, dottò...”.

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mercoledì 30 marzo 2011

Amélie



Amélie aveva una scatola, con dentro sogni e pezzi di vita. A volte la mostrava, ma dovevano essere persone speciali. A volte l’apriva e qualcuno di quei colori straordinari usciva e iniziava a cospargere le pareti bianche della stanza. Allora lei si spaventava e richiudeva subito il coperchio. La pallina poteva ruzzolare sotto il letto: e se si fosse persa?

Amélie aveva un posto, dove non entrava nessuno. C’era il suo odore forte e tutto parlava di lei. La luce era chiara e ogni oggetto una foto di momenti vissuti. Persone. Sorrisi. Rombo sfumato di parole fuggite col vento di qualche sera romana, di un sabato lontano.

Amélie aveva una musica in fondo al cuore, un ballo di pochi minuti con un bambino sconosciuto, con occhi chiari pieno di sogni smarriti, emozioni chiuse dietro una mattonella. Musica di nostalgia di una stanza in penombra.

Amélie aveva un ricordo, che si faceva ogni giorno più bianco, da stringere in pugno per trattenerlo. Un abbraccio adulto partito prima del tempo. Un bisogno di partire per cercare. Una paura di perdere. Una strada da seguire.

Amélie era mia figlia, era tutto ciò che c’era. Era mia madre che torna dopo il raccolto, alla sera. Era il profumo della scoperta e l’invenzione della gioia.

venerdì 18 marzo 2011

Il rivoluzionario è dentro di te



Provate a perdere la coincidenza di un aereo a causa di un ritardo e per questo ritrovarvi di notte nella periferia di una città straniera. Trovare da dormire in attesa di poter prendere l’aereo giusto chissà quando, tra una selva di voli cancellati e bagagli smarriti, vestiti con abiti sbagliati per le latitudini a cui siete stati sbalzati. Il mondo può non essere rassicurante come sembra tra i corridoi segnati e illuminati dell’aeroporto, non è vero?

Pensiamo di esser liberi e padroni del nostro destino mentre percorriamo, tra scale mobili e tapis roulant, il nostro sentiero tracciato ed invece siamo piccole formiche di cui viene studiato il comportamento. Si conoscono i punti di sosta prolungata dei viaggiatori, per posizionare in quel luogo il punto vendita più appropriato. Si scandagliano minuziosamente i movimenti della gente per poter massimizzare la propensione all’acquisto. Si massifica, meglio possibile, il movimento collettivo convogliando i flussi in canali obbligati. Non accade solo in aeroporto, ma in tutto ciò che facciamo. Il paradosso è che la maggior parte di noi è convinta che la libertà si trovi dentro, l’aeroporto, anziché fuori. Fuori dall’aeroporto c’è un deserto che mette a disagio, una periferia urbana/industriale sempre orrenda. E lo è perché nessuno prevede che una persona solchi quelle rotte. Semplicemente, non è previsto. Non si può uscire dal cordolo. Come nel Truman Show, potresti scoprire il trucco se arrivi ad affacciarti dietro lo sfondo di cartapesta.

Si crede che la facilità di accesso offerta dalla tecnologia, la possibilità di viaggiare e spostarsi, sposarsi e divorziare siano requisiti che definiscono la libertà di ognuno di noi. Ma fermandosi un attimo, uscendo dalla strada che è stata tracciata per noi, all’interno della quale tutto appare possibile, si può osservare una realtà diversa.

In un libro, cioè questo si affronta questo tema che mi è caro. La società contemporanea è conformista. Molto più che nei decenni scorsi. Lo è sempre di più e con sempre minor opposizione da parte dell’individuo. Sui motivi di questo dato si esprime bene Simone Perotti, travasando direttamente dal mio cervello le parole e trascrivendole in modo estremamente acuto sul libro pubblicato. Ma come siamo diventati così? C’è chi sostiene (Benjamin Barber - "Consumati. Da cittadini a clienti" - Einaudi) che il consumismo si è deteriorato quando ha smesso di soddisfare bisogni, perché essi erano stati di fatto esauriti dai decenni precedenti, ed ha cominciato a sforzarsi di determinarne di nuovi. Può darsi.

Ma come può l’individuo accettare di essere schematizzato, per pura esigenza semplificatoria, in gruppi di caratteristiche omogenee? La persona, se coincide con il cliente e viene giudicata solo da ciò che è propensa a consumare, subisce una fatale semplificazione. Provo disagio per la quantità di vincoli alla libertà individuale che viviamo oggi, illusi che sia vero esattamente il contrario.
La nostra società è basata sulla massificazione. E’ l’industria di larga scala a volerla così. E’ molto meno costoso, per chi deve organizzare l’offerta di prodotti e servizi, trovarsi di fronte una domanda prevedibile. Va ancora meglio se oltre ad esser prevedibile questa è facilmente influenzabile. Questo inquadramento non è avvenuto con violenza, ma in modo fisiologico e progressivo. E’ connaturato al capitalismo “all’americana”, che ha prevalso nei nostri paesi influenzando, com’è ovvio, anche i rapporti tra le persone oltre che i comportamenti individuali.

Alcuni esempi? Provate a regalare un vestito blu ad una bambina. Niente. Le bambine devono vestire rosa. Se invece vedete un bambino con una bambola, l’avrà certamente rubata a sua sorella: non esistono bambole, se volete fare un regalo a un maschietto potete scegliere tra l’epopea di qualche supereroe ipervirile oppure buttarvi su sport o trenini/macchinine. Amate lo sport? Non azzardatevi a pretendere di vedere in tv la vostra squadra preferita di pallavolo. Si vive bene così, perché porsi troppe domande? Con tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere... perciò adesso, non recriminare, mettiti in fila e torna a lavorare...Vivrai in coppia, rigorosamente, che è l’unico modo per allevare i figli, in una casa ma meglio che sia di proprietà perché la sicurezza è un valore. Lo è talmente, che una delle massime svolte (in negativo) per la società è stata la fine del “posto fisso”. Una società diversa sarebbe forse stata pronta a digerirne le conseguenze. Sono ben poche le scelte che si possono prendere senza adeguarsi alle rigide sponde che sono ai lati del corso d’acqua che è la nostra esistenza. Cambiare questo schema si può, ma costa molto. Si chiamano “barriere all’uscita”. Scavalcare gli argini è possibile, ma il prezzo è molto alto. E non a tutti è consentito. Non tutti possono, non tutti sanno. Bisogna essere rivoluzionari. Non come quelli che imbracciavano il fucile, però. Rivoluzionari “dentro”.

Da “Adesso Basta” (Simone Perotti) - ed- Chiarelettere
Il rivoluzionario
Il vero rivoluzionario contemporaneo, quello che può seriamente far tremare l'establishment politico-economico, è oggi un consapevole, cocciuto, equilibrato individualista, che parte da sé, dal suo mondo, ci lavora sopra, fa di tutto per essere libero e consapevole come essere umano singolare. (Un individualista della volontà, sia chiaro, restando nel cuore un uomo sociale e in relazione). Non necessariamente compra ciò che gli si dice. Non necessariamente fa quel che dovrebbe. Usa gli strumenti come strumenti, non come fini. Costruisce una sua realtà, adatta a sé, efficiente, concreta. Così facendo, il singolo diventa eversivo. Egli interrompe in qualche punto vitale le sinapsi del consumismo e dell'assenza di senso. Il suo comportamento è individuale, cioè mosso dalla responsabilità e dalla dignità del singolo essere, dall'orgoglio di non vedersi soggiacere alla massificazione, eppure ha effetti enormi sul sistema, il suo esempio è emblematico e vale più di mille teorie sociali o programmi politici. Con conseguenze imprevedibili. Dieci, cento, mille uomini così e il potere è spacciato.


Non sono considerazioni particolarmente nuove. Bennato componeva testi invettivi sul conformismo già negli anni settanta. Quello che preoccupa è l'escalation, rispetto agli anni di Bennato, degli effetti che la massificazione ha determinato sull'arbitrio individuale. Ed ora, in attesa della rivoluzione, "in fila per tre"!


presto vieni qui ma su non fare cosi'
ma non li vedi quanti altri bambini
che sono tutti come te
che stanno in fila per tre
che sono bravi e che non piangono mai

e' il primo giorno pero'
domani ti abituerai
e ti sembrera' una cosa normale
fare la fila per tre
risponder sempre di si
e comportarti da persona civile

vi insegnero' la morale
a recitar le preghiere
e ad amar la patria e la bandiera
noi siamo un popolo di eroi
e di grandi inventori
e discendiamo dagli antichi romani

e questa stufa che c'e' e
basta appena per me
percio' smettetela di protestare
e non fate rumore
e quando arriva il direttore
tutti in piedi e battete le mani

sei gia abbastanza grande
sei gia abbastanza forte
ora faro' di te un vero uomo
t'insegnero' a sparare
t'insegnero' l'onore
t'insegnero' ad ammazzare i cattivi

e sempre in fila per tre
marciate tutti con me
e ricordatevi i libri di storia
noi siamo i buoni percio'
abbiamo sempre ragione
andiamo dritti verso la gloria

ora sei un uomo e devi cooperare
mettiti in fila senza protestare
e se fai il bravo ti faremo avere
un posto fisso e la promozione
e poi ricordati che devi conservare
l'integrita' del nucleo familiare
firma il contratto e non farti pregare
se vuoi far parte delle persone serie

ora che sei padrone delle tue azioni
ora che sai prendere le decisioni
ora che sei in grado
di fare le tue scelte
ed hai davanti a te
tutte le strade aperte

prendi la strada giusta e non sgarrare
se no poi te ne facciamo pentire
mettiti in fila e non ti allarmare
perche' ognuno avra'
la sua giusta razione
a qualche cosa devi pur rinunciare
in cambio di tutta la liberta'
che ti abbiamo fatto avere

percio' adesso non recriminare
mettiti in fila e torna a lavorare
e se poprio non trovi niente da fare
non fare la vittima
se ti devi sacrificare
perche' in nome del progesso
della nazione
in fondo in fondo puoi sempre emigrare

(edoardo bennato, 1974)

giovedì 20 gennaio 2011

La poetica dell'assenza


Giorni fa ho assaggiato alcune annate di un vino. Il Sassella Riserva Rocce Rosse di Ar.Pe.Pe.

Verticale, si chiama, l’assaggio di varie annate di una medesima etichetta. Il mio Virgilio in questo viaggio si chiama Armando. Lui conosce la zona, conosce l’azienda e pure l’etichetta. Lui è uno che si emoziona e sa come si descrive questo stato di grazia. Certamente sa anche che facendolo (cioè emozionandosi e descrivendosi) si può suscitare l’emozione altrui. Non di tutti, non allo stesso modo. Ma per lui, credo, basta anche solo una persona che capti i messaggi cifrati di cui è cosparsa la semina.

Il monito che precede il decollo è questo: “non cercate nell’assaggio qualcosa che già sapete”. Se prima di un viaggio o di una scoperta non ci si spoglia dei propri preconcetti e pregiudizi tutto ciò che si può raggiungere è una stratificazione di convinzioni. Non certo la conoscenza.

Insomma per usare un’esortazione a me cara: “mettetevi in discussione!”.

Questo vino evoca l’assenza. Non ha frutta. Non ha legno. Non ha i toni varietali del vitigno di provenienza. Non ha colorazioni fulminanti. Brilla per rarefazione invece che per concentrazione. E’ puro terroir. Concetto astratto, rappresentazione di un’idea, di uno stato della coscienza. Un monumento immateriale che tiene in sé il tutto con grazia eterea. Aromi complessi e gusto interminabile, timbro inconfondibile che riesce a sposarsi con una semplicità antica. L’esperienza sensoriale è così lunga e spontanea che la mia mente comincia a sollevarsi da quel tavolo e si abbandona alle onde della suggestione.

Ragiono sull’assenza, sul fascino delle ombre - che sono il presupposto per la luce - su “quello che non c’è”. Sulla sottrazione che è a volte il mezzo per raggiungere l’equilibrio. Sulla mancanza che è il veicolo del desiderio, di un luogo una persona o il sorso successivo. Penso a quanta bellezza si poggia sulle sottili ma fortissime corde della semplicità e quante cose si possono trovare in una sintesi che riesca a contenere la grandezza di certe creazioni. Si spendono tante parole per poi essere tacitati da un’unica pennellata che le racchiude tutte.

E’ un grande insegnamento, la sintesi. E’ disciplina dell’autocontrollo e della ricerca dell’essenza.

Cercare l’essenza attraverso l’assenza.





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QUESTO ARTICOLO E' STATO CITATO DALL'AZIENDA AR.PE.PE. A QUESTO INDIRIZZO.

lunedì 10 gennaio 2011

Le virtù del disequilibrio


In me c’è una metà più lunga: quella che comprime la struttura. E’ lei che mette in discussione l’equilibrio e causa le tensioni. Per esser solidali ad essa, le parti flessibili si comprimono e si accorciano, cercano di “compensare”. Di conseguenza, altre parti si allungano e distendono in un’affannosa ricerca della simmetria.

Può accadere di starci male, per questo squilibrio. E pure molto.

Il benessere passa attraverso la dedizione. Bisogna cercare di sorreggere l’impalcatura attraverso le virtù della costanza, massimizzare la percezione dei propri movimenti, sfumare l’acutezza delle percezioni nevritiche, controllare le dimensioni ed infine dedicarsi alla sottile arte della ricerca dell’equilibrio tra le parti. Distendere la metà compressa, certo, ma senza comprimere l’altra. Non si può vincere l'asimmetria con un impulso a sua volta asimmetrico. Bisogna vincerla con la simmetria buona: distendere e comprimere entrambe le metà, tenendo presente che certamente una soffrirà l’allungamento più dell’altra.

E' così che anno dopo anno si può restare aggrappati all’instabilità, impegnati in una pervicace lotta per la ricerca del contrappeso, considerandone perfino i lati positivi. La lotta spinge ad essere virtuosi, obbliga a dominarsi, impone un’autodisciplina.

Evidentemente quelli come me riescono a stare in piedi solo se stimolati dal disequilibrio.