giovedì 28 aprile 2011

L'uomo che fu: il vinaio a domicilio



E’ necessario essere un po’ in là con gli anni per ricordare i tanti personaggi che si affacciavano all’uscio delle case proponendo vendite e servizi di ogni genere. Il calzolaio, il maniscalco, l’arrotino, il pastore che portava in città pecorini e caciotte, il calabrese che vendeva le conserve. Il vinaio.

Si, c’era anche il vinaio. E la notizia è che c’è ancora.

Giorgio, il vinaio a domicilio che citofona, chiede “serve vino?”, sale con botticella al seguito e riempie le bottiglie di “bianco o rosso” sfuso, da bere presto perché altrimenti acetizza. Un vino imbarazzante per tanti appassionati abituati a confrontarsi con produzioni di ben altra classe. Invece Giorgio vende vino da un euro al litro e prima delle feste propone, in bottiglie di vetro più pesante e costoso, una versione rifermentata. Vuoto “a rendere”, s’intende.

Non solo l’arrotino, quindi, diventato ormai mitico per il suo annuncio gridato per le strade come l’urlo di un passato che non vuol rassegnarsi ad esser soffocato dalla modernità. “E’ arrivato l’arrotinoooooo....”.
Da oggi possiamo aggiungere che è arrivato pure il vinaio. La cosa interessante non è il vino che egli propone, bensì il mestiere di questo uomo antico ma moderno - Giorgio è tecnologico: gestisce i clienti con lo smart phone e, se glielo chiedi, saprà illustrarti i più convenienti investimenti in Borsa - che riesce a sopravvivere negli anni. I servigi del vinaio a domicilio si tramandano tra parenti, come accadeva con la servitù o gli stallieri. Gli uomini di fiducia insomma. Questa sopravvivenza ci parla di un “bisogno” che esiste anche nel tempo dell’e-commerce e che Giorgio e quelli come lui (la vendita a domicilio si fa anche a Parigi) soddisfano con la loro proposta, basata sul rapporto umano di fiducia che evidentemente il commercio elettronico non riesce a scalzare completamente.
E chissà che prima o poi qualcuno non immagini di allargare l’offerta, ed oltre ai blandi vini e olii sfusi proponga una vera enoteca a domicilio. Sarebbe in elegantissimo completo scuro, con tastevin al collo e griderebbe: “E’ arrivato il sommelieeeeeer!!!!!!!!”.

==================================
QUESTO ARTICOLO E' STATO PUBBLICATO DA BIBENDA A QUESTO INDIRIZZO

lunedì 11 aprile 2011

Primati tatuati

Ero in treno e ho dovuto assistere, come altri viaggiatori, allo spettacolo allucinante di un gruppetto di energumeni (sulla trentina, mica giovanissimi!) reduci dal Vinitaly che secondo alcuni (troppi) è un posto dove andare ad ubriacarsi a buon mercato(*). Urlavano, bevevano, importunavano le donne e sferzavano il controllore, il quale - sollecitato dagli altri passeggeri esasperati - andava a chiedere il rispetto del luogo. La scena mi ha innervosito ma anche ispirato.

-----------------------------

(*) secondo me è anche lecito chiedersene il motivo. Non sarà forse (sottolineo forse) che quello della fiera gigantesca e mainstream non è il modo giusto di concepire, vivere e presentare il vino?



Quello che mi spaventa
è il ghigno da uomo stupido
di chi mi siede di fronte;
vestito in fondo di niente
anche s’è firmatissimo il suo presente,
ma ciò che spoglia è l’assenza di domande.

Quello che mi deprime
è l’assoluta assenza di spessore,
come ombre opache dal televisore,
di scimmie che si spostano in gruppo
e parlano di niente come tutto,
e poi pensare che non cambiano

come non cambia questo posto,
e che in un certo senso è questo
un bell’indicatore di contesto,
che nelle facce si riflette a volte
un tipo di malessere comune,
un assoluto vuoto di ragione.

Quello che m’indispone
è quell’atteggiamento da primati,
poco pelosi e molto tatuati,
di piccoli grandi fratelli
che l’unico linguaggio che comprendono
non è dei libri, ma quello dei randelli.

E’ allora che mi prende una vergogna
e il senso di tristezza più profonda
perché civile, prima ancora che bandiera,
è un codice del vivere comune
se non c’è il quale tutto quanto muore.

E si procede adesso a testa bassa
sulla via ch’è propria del crepuscolo,
se il vertice è in cancrena
e ciò che è sotto
o scende a patti, o scrive versi,
o è pari a questo.

lunedì 4 aprile 2011

Il richiamo antico del mercato rionale


C’è un quartiere che frequento per lavoro che ha vari motivi di fascino. Uno di questi è la folta presenza di locali di ogni tipo. Ristoranti, osterie, bar, pizzerie ma anche gallerie d’arte e oggetti di arredo. Si possono assaggiare i piatti più disparati, scegliendo in base all’estro del momento fra pizza napoletana doc, crèpe, sushi oppure arancine siciliane e poi pasticceria, gelati, pastasciutta o gulash. Sono tanti gli impiegati e i professionisti che all’ora di pranzo affollano, con le loro giacche e cravatte, i tavolini apparecchiati con tovaglie di ogni colore.

Eppure io, di tanto in tanto, amo prendere un panino al mercato rionale. Si, uno di quei mercati di quartiere che trent’anni fa erano il luogo prevalente per fare la spesa, abitudine quotidiana invece che settimanale come accade più spesso oggi. Pesce e carne freschi e poi il pane, da comprare ogni giorno dal panettiere di fiducia, e il latte in “latteria”. Una volta nel mercato rionale coperto c’era pure il vinaio, che ti riempiva la bottiglia oppure la damigiana. A volte vendeva pure l’olio e aveva la pizza bianca bassa e croccante. La potevi mangiare se volevi un bicchiere di vino da assaggiare prima di comprare.

Scelgo il panino dal fornaio e poi passo dal salumiere e seguo le suggestioni della vetrina, chiedendo di farcire il pane con un affettato sempre diverso e poi del formaggio oppure altro. Tonno fresco, verdure grigliate. Non c’è limite alla fantasia ed ogni volta è un nuovo accostamento. E mentre sono lì che guardo affettare il prosciutto sento i suoni antichi del mercato rimbombare sotto il soffitto altissimo di vetro e cemento. Urla di richiamo, canzoni fischiettate da venditori che spostano cassette di frutta, discussioni sui risultati dell’ultima partita. E soprattutto sento gli odori forti del cibo che si mischiano fra loro. Un teatro umano nel quale proiettarsi per staccare, davvero, dalla monotonia asettica di un ufficio.

Ma ecco che la signora mi porge il ricco panino. “So’ tre euro, dottò...”.

================================
QUESTO ARTICOLO E' STATO PUBBLICATO DA BIBENDA A QUESTO INDIRIZZO.