domenica 30 dicembre 2012

L'anno vecchio è finito, ormai (ma qualcosa ancora qui non va)


Caro Lucio ti scrivo così mi distraggo un po'

e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.
l'anno vecchio è finito ormai
ma qualcosa ancora qui non va.


la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione e tutti quanti stiamo già aspettando

La televisione dice sempre un sacco di stronzate ma, a differenza di quando hai scritto la canzone (1979), ben pochi ci credono ancora. Forse perché ai tuoi tempi non c'era ancora stata la Fininvest.


sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ogni Cristo scenderà dalla croce anche gli uccelli faranno ritorno.

Non so a quali uccelli ti riferissi, ma oggi sono più quelli che se ne vanno che quelli che tornano. Lo dice anche Caparezza.


Ci sarà da mangiare e luce tutto l'anno,
anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno.

La luce c'è, ma si paga assai più che allora. Quanto ai sordi, continuano a parlare senza ascoltare e i muti oggi come ieri non hanno voce. Non è cambiato molto, mi spiace dirtelo.


E si farà l'amore ognuno come gli va,
anche i preti potranno sposarsi
ma soltanto a una certa età,

Erano belle le speranze degli anni settanta, vero? Oggi l'amore non è per niente libero, anzi è incanalato nei rigidi binari di un conformismo a sfondo clericale, basato fondamentalmente sulla repressione della sessualità. Nonostante - o forse per mezzo di - l'inflazione mediatica della simbologia sessuale. Quanto ai preti, continuano a non sposarsi ma fanno tutto il resto.


e senza grandi disturbi qualcuno sparirà,
saranno forse i troppo furbi
e i cretini di ogni età.

Qualche cretino sarà pure sparito, ma a me pare che ad andarsene siano sempre i migliori. I furbi prevalgono, vorrebbero in alcuni casi tornare perfino in parlamento. Non ci credi, vero?


vedi caro amico cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra,
per continuare a sperare.

Oggi come allora, nonostante tutto, ridere e sperare è tutto ciò che possiamo fare.


L'anno che sta arrivando tra un anno passerà
io mi sto preparando è questa la novità

Anch'io mi sto preparando. Ciao Lucio. A presto.

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(post liberamente ispirato a "L'anno che verrà, Lucio Dalla, 1979)

martedì 25 settembre 2012

Impressioni di settembre: Boston



Boston una volta era molto diversa da oggi. Un nodo autostradale in pieno centro spaccava la continuità urbana e a ridosso di questo, ed anche più a sud, esistevano ampie aree degradate. Condivideva insomma la stessa natura di molte città degli States in cui ricchezza e povertà, splendore e decadimento coesistono nello spazio di pochi metri. Poi ha cominciato a decollare e lo ha fatto grazie ad un’intensa opera di risanamento la cui paternità è stata condivisa tra Stato (Massachusetts) e comune.
Il “Big Dig”, nei quindici anni a cavallo della crisi delle torri gemelle, ha interrato l’intero groviglio viario fra North End e il resto della città sostituendolo con giardini e fontane. Contemporaneamente, un’illuminata politica cittadina ha cercato di restituire a ciascun quartiere la sua identità peculiare in opposizione al cosiddetto urban sprawl che, in quasi tutte le città occidentali, ha segnato negli ultimi vent’anni una forte espansione dell’urbanizzazione verso le periferie, con quartieri residenziali tanto ampi quanto privi di anima o almeno di un proprio carattere distintivo. Limitatamente al comune di Boston, questa azione ha cercato di riaggregare la città puntando sulla dimensione del quartiere, un caso più unico che raro in America e in controtendenza rispetto all’Europa. Il sito internet del comune esprime tale suddivisione in quartieri: c’è una brochure che ne elenca la storia e una community di persone affiliate al comune che - presumo gratuitamente - si mettono a disposizione per dare consigli sulla propria zona. Si tratta di un modello urbanistico prettamente europeo che Boston, la più europea delle città americane, ha perfettamente ereditato e che l’Europa sembra aver smarrito frastornata da giganteschi megacinema, megastore, megaparcheggi che segnano lo scenario di periferie ipertrofiche. Intere aree nate dal nulla e anche per questo vuote di senso.
Gli interventi pubblici hanno fatto da volano a numerosi investimenti privati. Mai viste tante case in ristrutturazione in un quartiere aristocratico come Beacon Hill.
L’effetto collaterale di tutto ciò è stato un generalizzato aumento dei prezzi degli affitti e delle compravendite immobiliari. Come a dire: vivere in una città bella e funzionale non è gratis.

A proposito di funzionalità non vorrei soffermarmi troppo su particolari che sarebbero banali solo se non rappresentassero un confronto vergognoso per noi italiani. La connettività Wi-Fi gratuita copre gran parte della città un po’ per l’iniziativa privata - non c’è locale che ne sia sprovvisto - un po’ per quella pubblica in uffici, treni e parchi pubblici. I parcheggi sono costosi per chi viene da fuori, che oltretutto paga un pass per entrare in città con l’automobile, ma sono pressoché garantiti agli abitanti: in ogni quartiere la maggior parte degli spazi-macchina sono preclusi ai non residenti. Del resto l’automobile in città è tutt’altro che obbligatoria (a meno di casi familiari particolari: anziani, invalidi, bambini) in quanto le dimensioni urbane, unite ad una rete di trasporto adeguata, permettono di muoversi agevolmente a piedi. In compenso l’efficienza dei mezzi è impressionante. Non solo puntualità e frequenza. Ascensori e scale mobili in ogni stazione - mai assistito ad un caso di malfunzionamento in venti giorni di uso intensivo della rete - pavimento lucido e perfino ventilatori per i passeggeri in attesa sulla banchina. Biciclette in ogni angolo, un buon numero delle quali di proprietà del comune e affittabili a cinque dollari per mezz’ora. Ma il particolare che mi ha davvero smarrito è stato vedere un dipendente comunale, in divisa, lucidare (sottolineo: lucidare) un secchio della spazzatura lungo un marciapiede. Ero allibito. Mi è stato spiegato che lo fa per un motivo preciso: la superficie dei cassonetti della città è provvista di cellule fotovoltaiche che azionano un motore che fa il compostaggio dei rifiuti. Se il coperchio è sporco, le fotocellule non si caricano completamente. Ovvio.

So bene cosa accade ai miei connazionali quando si confrontano con altre realtà. Non sai se essere più invidioso per gli abitanti locali che, pur pagando meno tasse di te, hanno la possibilità di vivere in una città che funziona meglio della tua oppure incazzarti col tuo Paese, la tua regione e il tuo comune e perfino con chi ha voluto fare dell'Italia uno stato unitario, palesemente incapace di autogovernarsi, anziché lasciarla ad un più fisiologico stato di divisione subalterna.

Non è che voglio per forza parlar male del mio paese non appena varco i confini. Non voglio apparire ingrato come un figlio che sottovaluta ciò che la mamma, naturale o putativa, anagrafica o professionale, gli regala senza chiedere in cambio nulla più che uno sguardo benevolente.
Neppure sono un turista di primo pelo che si impressiona per il solo fatto di mangiare un hamburger fatto bene in luogo delle imitazioni che si trovano da noi. Qualche posto l’ho visitato in vita mia. Boston è davvero una città deliziosa e non solo una città ben organizzata. Racchiude in sé aspetti positivi dell’Europa e degli Stati Uniti. Questo non significa che sia l’Eden.  Per esempio, agli occhi di un romano, non sfugge l’assenza di monumenti di impatto mondiale che reggano il confronto col Colosseo o San Pietro. Tuttavia i monumenti, pur importanti, non hanno un impatto risolutivo sulla qualità della vita. Insomma sia chiaro: so bene che l’Italia non è solo decadenza e malfunzionamento. Ha anche alcune bellezze indubitabili. Per esempio c’è la pizza margherita. E poi un bel clima (...).

Anche se giovane da un’ottica europea, Boston, fondata nel 1630, è la più antica fra le metropoli americane. La città si confronta continuamente con il passato, con orgoglio ma senza restarne intrappolata. L’intera area del seaport district, la più vecchia della città e teatro di sbarchi e anche di scontri armati, invece di ripiegarsi in un immobilismo museale stantìo, si sta ripensando completamente. Uno dei primi tasselli è stato il mastodontico Institute of Contemporary Art (ICE), poi l’istituto di design e altri edifici in costruzione. Non per questo il molo dei pescatori è stato demolito.

Boston è anche e soprattutto una città accademica. Il rapporto Università/popolazione è impressionante e istituzioni come Harvard, MIT e Boston University richiamano studenti da tutto il mondo nelle proprie sedi monumentali. Indubbiamente la forte vocazione accademica si riflette sulla società, che è quanto mai giovane e internazionale. Giovani attivi e benestanti. Avrei voluto chiedere ad ognuno di essi quanto del proprio reddito fosse riferibile ad aiuti familiari (finanziari e di altro tipo) e quanto derivasse da un percorso di vita personale in un ambiente favorevole all’investimento di ciascun individuo sul proprio futuro.

Non so definire esattamente la causalità fra cultura media degli abitanti e buona educazione, ma sospetto che sia piuttosto stringente. In tutto il periodo di permanenza, non credo mi sia mai accaduto di salire qualche gradino con il passeggino senza che qualcuno si offrisse di aiutarmi. Come minimo di aprirmi la porta, ma spesso di sollevare il passeggino stesso. Se capitava di sedere lontano dai miei, in metropolitana o in qualsiasi altra sala di attesa, subito c’era chi si alzava, a volte anche tre persone contemporaneamente, per farci sedere vicini. La prima volta rimasi fermo al mio posto osservando questi “eccentrici” comportamenti con sguardo interrogativo e aspettando il terzo o quarto “you’re welcome” o “here you go” prima di muovermi e ringraziare. Salgo con il passeggino sulla scala mobile? Subito qualcuno si precipita ad avvertirmi che c’è un ascensore, una rampa, qualcosa insomma che mi renderà la vita più semplice. La percezione di sentirsi osservati non è esattamente ciò che intendo per libertà, ma devo ammettere che un simile slancio collettivo, quasi istintivo negli abitanti a giudicare dalla frequenza con cui si è manifestato, mi ha colpito profondamente. La cortesia come atto spontaneo, senza sovrastrutture (sociali o commerciali per esempio) ma piuttosto introiettata fino a divenire un riflesso condizionato. Dopo un po’ la cosa ti coinvolge e cominci anche tu a cedere il passo a chiunque, a ringraziare tutti e aprire le porte e sorridere a chi passa con un bambino al fianco. Poi torni in Italia e riprendi a guardare il prossimo in cagnesco (ma che vuole questo qui? Il mio posto in metropolitana, forse, oppure è un raccomandato o quanto meno sta pensando di rubarmi la pensione. Mors tua vita mea. E’ la filosofia tipica dei posti con poco spazio, poche possibilità, poca ricchezza non solo in senso finanziario, poca dinamica sociale, poca fiducia nel futuro, poco ricambio generazionale, poca immigrazione di qualità, ecc.). Ma poi torni a Boston. E poi torni in Italia. E poi a Boston. E poi in Italia. E poi....

venerdì 24 febbraio 2012

Nostalgia, ma di futuro



Non è vero che la storia dell'essere umano è un percorso continuo verso il miglioramento. Credo piuttosto che il progresso avvenga a strappi, che l'uomo proceda a tentoni alternando periodi di sviluppo ad altri di decadenza. E' difficile argomentare senza dilungarsi in approfondimenti sociologici ma, insomma, io molto umilmente una sensazione ce l'ho. Vorrei esser nato vent'anni prima.

E' un'opinione tutt'altro che desueta: Woody Allen ci ha fatto un film poco tempo fa (Midnight in Paris) e capita spesso di sentir dire che, banalmente, si stava meglio “una volta” alludendo ad un generico periodo del passato (di solito quello in cui l'autore dell'esclamazione – quasi sempre anziano – era un giovane nel pieno vigore delle sue passioni). Ma una volta quando? La mia non è una sommaria proiezione verso il passato. Parlo specificatamente degli anni sessanta e settanta.

So che molti che hanno vissuto quegli anni potrebbero elencarne numerosi contrasti. L'autoritarismo clerico-borghese verso i giovani degli anni sessanta, gli anni di piombo e le crisi petrolifere dei settanta, le tensioni tra occidente e blocco sovietico. Ne convengo. Problemi ce ne sono in ogni epoca ed ognuna contiene opportunità e conflitti. Sono anche consapevole che leggere il passato alla luce di un presente difficile (c'è “La Crisi”...) esponga al travisamento. Sono attento a tener presente che tra i giovani che hanno dato vita alle contestazioni ce n'erano alcuni che lo facevano per una sorta di caricaturale “conformismo rivoluzionario”. Insomma in parte era anche una moda, una tendenza e i più acuti non mancarono di osservarlo (Pasolini). Mi sia concesso quindi l'onore del rigore: sono determinato a considerare il passato con la massima neutralità di cui dispongo.
Tuttavia ci sono elementi inconfutabili. Il fermento di quegli anni ha prodotto  sommovimenti sociali, molti dei quali sono partiti dal basso. Le differenze tra ricchi  e poveri si sono ridotte, anche grazie ai risultati di politiche keynesiane e all'onda lunga del new deal americano. La contrapposizione a questo scenario macroeconomico furono il monetarismo e la dottrina di Friedman. Essi avrebbero invertito la tendenza e trovato espressione politica a partire dagli anni ottanta; gli effetti conclusivi di quella reazione li stiamo vivendo oggi. C'è quindi ragione di guardare al passato per ritrovare in esso la maggiore realizzazione di  istanze come l'uguaglianza, la diffusione del benessere, l'espansione dei diritti. Paul Krugman (premio nobel per l'Economia nel 2008) è tra i maggiori sostenitori di questo punto di vista e ultimamente anche in Europa molti hanno capito che c'è del vero in tutto ciò.

Non ne faccio solo un caso di corsi economici, pur nell'importanza che essi rivestono nella storia dell'uomo. Quello che avrei voluto vivere è il senso che un giovane di quarant'anni fa aveva del futuro. L'ottimismo, il sogno. Se di nostalgia possiamo parlare, visto che tale sentimento è spesso proteso verso l'assenza, la mia è nostalgia del futuro. O meglio, di una certa idea di futuro. L'ascoltiamo nella musica di quegli anni, tuttora ineguagliata e imprescindibile punto di partenza per ogni autore. Il blues, il rock, molti generi musicali hanno espresso vette insuperate. Nessuna generazione ha ascoltato con convinzione la musica dei propri padri come accade a quella attuale. Genesis, Pink Floyd, Doors, Jimi Hendrix (la lista potrebbe essere enorme) continuano a segnare nei cuori degli adolescenti solchi profondi come quelli che dai vinili, tornati oggi in voga, diffondono nell'aria le note di Ticket to ride (Beatles). Il “biglietto per partire” dei baronetti di Liverpool mi appare come un clamoroso manifesto di quell'atmosfera. Tenetevi pronti, sembra voler dire, perché il cambiamento è alle porte e potreste essere proprio voi a determinarlo. Voi con le vostre idee, con la vostra energia, con la vostra gioventù ed il vostro bisogno di divertirvi, di essere ascoltati, di amare. Si spogliarono, non solo metaforicamente, le donne prima e gli uomini poi per abbandonare retaggi di un passato che sembrava lontano anni luce. 
E’ pur vero che l’epoca presente è avara di fantasia, di un’idea di futuro pertanto divora le proprie radici, cioè gli anni sessanta e settanta, eleggendole a feticcio e deformandole. Si auto cannibalizza. Non è il sentimentalismo che mi spinge a guardare al passato, io avrei anzi una naturale propensione per il futuro, bensì il bisogno di concentrarmi su un nucleo positivo, quale mi sembra l’essenza di quel periodo a fronte della negatività odierna.

Provo a far miei quei sentimenti, oggi, e spronare sulle note di Bob Dylan chi si piange addosso. Ma ho quasi quarant'anni e come me i miei coetanei “tengono famiglia”. Come potrebbero (potremmo) esprimere la forza dirompente del cambiamento? Stiamo passando dall'esser rivoluzionari (mancati) ad essere conservatori (disperati). La mia è una generazione di passaggio, il cui contributo è forse solo la (tentata) gestione della complessità degli stimoli, della  frammentazione, della società di individui isolati di cui facciamo parte. Senza prospettiva, però. Nessuno slancio vitalistico verso il futuro né tanto meno una propensione corale. Nella migliore delle ipotesi, la missione della nostra generazione è preparare la prossima ad essere pulsione di cambiamento. Nei giorni migliori mi sforzo di convincere i miei amici che il dolore va collettivizzato, invece l'isolamento ci indebolisce. Che l'ambiente va protetto, il consumismo ridimensionato, che il cambiamento, se lo si vuole, va preteso. Siamo lì a lamentarci davanti alla televisione e all'ennesimo reportage in cui uno dei pochi giornalisti che non ha perduto la voce ci descrive la realtà. In che misura saremmo disposti a mettere in discussione quel (poco) che abbiamo per fare la “rivoluzione”? Già, perché per cambiare occorre essere disposti a perdere qualcosa. Ma poi spegniamo la tivvù e andiamo a letto: domani è un altro giorno da consumare in un lavoro che ci sta stretto ma ci garantisce l'acquisto del telefonino che scarica le e-mail.

A volte incontro persone che condividono i miei pensieri. Sono i miei amici e sono coloro con cui più spesso amo condividere il vino della mia cantina. Mi pare di poter vedere, come in una soggettiva hitchcockiana, una cena tra di noi. Sorridiamo un po' mesti, all'ironia cinica di qualcuno che ha appena fatto una battuta. Alziamo i calici e il vino ci conforta mentre fuori dalle finestre, fra le strade spazzate dal vento nuovo, la storia ci sta già giudicando.


QUESTO ARTICOLO E' STATO EDITATO E PUBBLICATO DA PORTHOS A QUESTO INDIRIZZO.

lunedì 9 gennaio 2012

Caro Tony



Caro Tony,
mi faccio vivo dopo tanto tempo e ti chiedo scusa: qui in Italia c'è sempre tanto da fare ed io sono immerso completamente nella mia esperienza. L'incredibile quantità di bellezze artistiche di cui straborda questo paese è pari al livello di inconsapevolezza che ha la popolazione di tale patrimonio. E poi il sole, la luce! Pensa che oggi, un giorno di gennaio, ho preso il sole in riva al mare in camicia.

Ciò che mi ha irrimediabilmente rapito è la stravaganza degli italiani. Contando sull'indifferenza verso i turisti, si può calpestare il verde pubblico o fare il bagno in una fontana senza che nessuno dei cittadini opponga la minima obiezione! Con un po' di fortuna, se non si incontrano poliziotti, si potrebbe perfino portar via qualche pezzo di una statua o di un antico muro imperiale. Numerosi turisti bivaccano nelle piazze lasciando un'assurda sporcizia. Te lo immagini da noi? Gli italiani sono molto tolleranti e tutto ciò dà ad uno straniero come me l'incredibile illusione della libertà totale.

Tuttavia ci sono alcuni argomenti che turbano la suscettibilità e vanno affrontati molto seriamente.

Uno di questi è il calcio. Se ti dichiari completamente incompetente (come me che seguo solo il baseball) non vieni considerato – ma sarai osservato, dal maschio italiano, con un obliquo sospetto – e puoi contare sulla tranquillità di cui godono gli stolti, che è molto simile all'indifferenza. In caso contrario ti è richiesta competenza su regole, storia del campionato, calciomercato. Ma soprattutto dovrai schierarti. Nulla è sgradito come un non-tifoso. Il calcio è il vero collante dell'identità collettiva e, a quanto mi raccontano, anche della coesione nazionale che durante i mondiali di calcio ritrova la propria ragione d'essere.

Un altro argomento serissimo e identitario è la pastasciutta. Credo che non esista un italiano che non ne mangi! La cosa incredibile è l'intransigenza che accompagna la consumazione di questo piatto: ieri al ristorante ho sentito molti occhi addosso mentre tagliavo gli spaghetti col coltello per poi mangiarli col cucchiaio. Qualcuno ha riso apertamente di me! Ma che male c'è, voglio dire? Non stavo mangiando con le mani, no? Non si può pensare che tutti imparino da bambini ad avvolgere gli spaghetti! E d'altronde non si può impedire a chi non sa mangiarli di godere del loro sapore. Ma il massimo l'ho raggiunto una settimana fa. Ero a casa di amici italiani e quando ho chiesto di scolare la mia pasta alcuni minuti dopo gli altri (in Italia la pasta si mangia cruda!) sono stato quasi aggredito. “E' questione di cultura”, mi è stato detto. Dicono che se non amo la pasta dovrei mangiare altro. Gli stessi commenti hanno accompagnato l'aggiunta di pecorino ai macaroni con le vongole o il pane con gli gnocchi. Ma io dico: perché non posso mangiare la pasta con leggerezza, senza inutili complicazioni? L'importante è stare insieme in allegria! Quasi tutti gli italiani potrebbero – anzi, lo fanno in realtà – disquisire per ore sul tipo di pasta più adatto al ragù o ai funghi (rigatoni o spaghetti? Prova a indovinare, vincerai un premio), sulla vera ricetta dell'amatriciana (la pancetta, a quanto pare, è bandita: ci vuole il guanciale). Ho assistito personalmente ad un dibattito fra puristi del pesto alla genovese: i fautori del parmigiano sono incalzati dall'ala progressista che prevede un 50% di pecorino sardo nella ricetta.

Io che vorrei solo un piatto di pasta senza farmi troppi problemi sono trattato con sufficienza. Che fine fa allora il buon cuore, la semplicità di tavole dalle tovaglie a quadri, la schiettezza degli stornelli? In quei momenti mi sento inferiore e mi vien fatto pesare il divario culturale fra un americano, che mangia bistecche piene di OGM e patatine fritte, ed un popolo che ha insegnato al mondo l'arte del mangiare e pretende ora di sostituire la basilare sussistenza con complesse elucubrazioni, la nutrizione con la preparazione di costosi manicaretti.

A questa deriva bisogna dire no! 

Per tutti coloro che si spaccano la schiena per guadagnare il pane, per chi è morto per la patria cantando fieramente alla bandiera l'importanza di essere fratelli, ed esserlo senza distinzioni velleitarie tra parmigiano reggiano e grana padano, gli italiani dovrebbero cercare la verità e opporsi all'iniquità dell'analisi sensoriale della pastasciutta.

So che sorriderai ad immaginarmi impegnato in simili questioni, ma in Italia ho capito come mai prima l'importanza di ritrovare il contatto coi valori autentici. Se rifletterai sono certo che condividerai l'urgenza delle mie battaglie.

Spero di riuscire a scriverti presto, affrontando il penoso tema della pasta all'uovo.

Tuo,
John Mc House

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Lettera trasmessa per gentile concessione di Bocuse SpA, tradotta da Pellegrino Artusi.