martedì 26 settembre 2023

C'è un costo, per la ricchezza? Se si, qual è? (domande di una notte, ma forse è mattina, di mezza estate)


 Hai terminato il tuo allenamento quotidiano nella palestra condominiale e chiami l'ascensore per salire in casa, dove ti aspetta una doccia calda con prodotti a base di olio di argan. Hai un fastidio al collo, probabilmente dovuto all'aria condizionata troppo alta (bisogna lamentarsi col portiere) e sei contrariato perché gli addetti alle pulizie hanno dimenticato di sostituire gli asciugamani puliti a disposizione per chi frequenta la palestra.

La giornata è iniziata male.

Una colazione sul balcone, con prodotti bio certificati, è quello che ci vuole. Assapori l'aria fresca del mattino: la bella stagione sta arrivando. Il tuo umore si rasserena, grazie anche al tè in foglie Darjeeling miscelato con petali di rosa e bava di lumaca.
La doccia è bollente, anche se la pressione dell'acqua non è al meglio. Colpa del vicino che sta ristrutturando il bagno (si è messo in testa di utilizzare solo marmo italiano e oro e sta litigando con l'architetto che non riesce a trovare le giunture dei tubi a 18 carati): ti sforzi di non pensarci. La tua mente è già rivolta alla giornata di lavoro che ti attende, a downtown. Chiami il garagista per preparare la tua Maserati.

Investire, disinvestire, investire, disinvestire. È come giocare al casinó. Ti convinci di aver fatto bene a contraddire il tuo amico Aaron, l'altro giorno al club. Si è fissato con questa cosa dell'economia reale. Ma non abbiamo già troppi problemi? Perché cercarsene altri, legandosi al rendimento di imprese zavorrate dal costo del lavoro e dalla domanda di beni che è fatalmente demolita dal crollo dei salari?

Prima di tornare a casa passi a fare la spesa. Una cosa che ti rilassa e che ti ostini ancora a fare tu, malgrado tutti i tuoi amici abbiano smesso da tempo di frequentare i supermercati. La fila alle casse li rendeva isterici ed ora comprano su web. Sabato Philippe e Bob verranno a mangiare da te, farete un barbecue nella spiaggia del tuo isolotto. Meglio un Cabernet Sauvignon della California o un Sirah australiano?
Arrivato a casa, lasci la macchina al garagista e ti accordi col portiere che ti porterà le buste della spesa in casa. "Ma solo tra un'ora", chiedi in modo perentorio, perché l'idraulico condominiale sta riparando il lavandino - dopo che Janet al party di domenica scorsa ci aveva inavvertitamente fatto cadere il tuo coltellino giapponese sbuccia-patate.

Mentre ti prepari un poke con salmone e avocado accendi il sistema di entertainment. Lasci che Alexa decida la playlist migliore, limitandoti a dire "metti qualcosa di soft", e guardi per un attimo fuori. Sta arrivando un temporale. Ti auguri che il tempo non turbi la giornata di domenica, visto che hai invitato Alice a fare un giro nella tua barca nuova. Sarebbe davvero seccante dover cambiare il tuo programma: in motocicletta fino al porto e, dopo un brunch da Gilbert's, spiegare le vele del tuo catamarano.
La seta delle lenzuola ti accarezza mentre prendi sonno. Queste nuove gocce del dottor Huxley sono davvero formidabili. Ti abbandoni felice come un bambino.
Hai solo il tempo per un'ultima riflessione, dedicata alle paperelle autoannaffianti del laghetto zen, in giardino. Michael le ha sostituite con un nuovo sistema controllabile da remoto e pensi proprio che dovrai cercare anche tu qualcosa di simile.

Ma ora basta pensieri.

venerdì 14 luglio 2023

Della ricerca di una verità

 Anno dopo anno, mi rendo conto con sempre maggior compiutezza che viaggiare è cercare. Si cerca al di fuori di sé ma anche, naturalmente, dentro di sé. Un viaggio come quello verso cui, mi rendo conto, finisco inevitabilmente per tendere, lo dimostra in modo molto limpido. Girare, muoversi, cambiare città e paese, smontare e rimontare le tende. Rifare i bagagli. Assistere al continuo mutare del paesaggio e della lingua e della temperatura e del clima, macinare chilometri. 

Maturare è, nella migliore delle ipotesi, focalizzare i tratti della propria ricerca.
Il tesoro che rincorro si chiama verità. L'epoca in cui vivo divora la natura intima dei luoghi e dei popoli, mischia e omogenizza le abitudini e le tendenze e mira all'omologazione. Semplifica le divergenze particolari, ne smonta i caratteri più aspri e ne esalta quelli più malleabili. Resistono tuttavia alcune nicchie - la Sardegna centrale ad esempio - che per ragioni intrinseche riescono in qualche modo a conservare il proprio nucleo di verità. Il proprio senso identitario. 
L' itinerario orientale che ho pensato aveva l'obiettivo di confrontarsi con questo interrogativo: i Balcani hanno resistito, e in quale misura, alla furia omologatrice dell'occidente americanomane? 
Bari sa essere, come per altri versi Venezia, la porta dell'est. Lo è fortissimamente dal punto di vista religioso, segnando il crocevia spirituale delle due cristianità che si ritrovano nelle reliquie di San Nicola. L'Albania a nord di Durazzo, per contro, è una difficile periferia che non vedevo l'ora di superare. Dava l'impressione di respingere chiunque. 
 
Arrivati a Budva, Montenegro costiero, l'impressione di respingenza non cessa. Costellata di alberghi abnormi, asfissiata dal cemento di palazzi in costruzione e attanagliata dal rumore assordante delle auto - rigorosamente tedesche - che sfrecciano fra camion pesantissimi sulla superstrada che la attraversa, Budva si è immolata sull'altare del capitalismo più spudorato. L'impressione è quella di una speculazione recente e affannosa: il paese ha accettato la tagliola dell'euro e come insegna l'economista Frenkel è nella prima fase di in ciclo finanziario che lo porterà inesorabilmente, dopo un primo afflusso di capitali esteri e una conseguente bolla economica, alla stagnazione. L'indebitamento con l'estero e i relativi interessi soffocheranno il bilancio pubblico e inchioderanno la popolazione, in particolare le fasce più fragili, a una disoccupazione "strutturale" e ad un progressivo arretramento dello Stato dai servizi pubblici. Duole assistere a questa dissennata corsa all'oro, perché la costa ha (aveva) un paesaggio naturalistico unico e la città vecchia è davvero incantevole.
 

L'entroterra, però.
Refrattario alle seduzioni del profitto apparentemente facile, il territorio aspro e arcaico del Montenegro rurale resta aggrappato pervicacemente alla propria verità. Qui il genio della natura non ha subito l'avvelenamento della tentazione satanica che ha corrotto la costa. Rarefazione, scarsa densità, pulizia del paesaggio non sono associati ad una povertà sociale, bensì ad una salvifica continenza. Il parco nazionale di Zabljiac offre moltissime attività, la popolazione ha scaltramente tratto vantaggio dal turismo che, inevitabilmente, affluisce attratto dal fascino indiscutibile di questa parte del paese. Ma non ha, per questo, venduto l'anima. Sono intrattenimenti semplici, frutto per lo più di iniziative locali di piccola imprenditoria. La ricettività è limitata, anche se in crescita, alle casette degli "etno villaggi", la ristorazione è strettamente localistica e la cosiddetta macchina organizzativa mantiene un contegno ed un rispetto di sé e dei propri luoghi che fa pensare al rigore lucido degli altoatesini. Ma senza quella meticolosa perfezione che forgia aiuole rasate al millimetro. Insomma naturale, quieto e calorosamente accogliente. Come la casa che ci ha ricevuti e i due vecchietti che la custodiscono, commoventi nel loro tentativo di comunicare con noi, pur senza conoscere una sola parola di qualsiasi lingua che non sia il serbo. 
 
  
Strapparsi a questa terra dopo pochi - troppo pochi! - giorni è un po' doloroso. Anche perché la lunga strada per la Croazia, che passa dalla Bosnia Erzegovina, è arroventata e aggrava la nostalgia per il clima fresco dei monti Durmitor.
La Croazia ripaga gli sforzi compiuti per percorrerla. Il versante a sud di Spalato praticamente ha un'unica strada, erosa alla montagna e percorsa da tutti: vacanzieri, residenti e autotrasportatori. La vista è così stupefacente da imporre al guidatore un sacrificio supplementare per dedicare la propria attenzione ad evitare scontri frontali piuttosto che ad ammirare il paesaggio. Una costa simile, ammetto, è un'esperienza che mi era capitata poche volte. Non sono solo la successione pazzesca di piccole insenature, spiagge minuscole con qualche barca attraccata e pochi bagnanti fortunati, le isole e isolette affacciate sulla costa e i colori strabilianti a richiamare lo sguardo. Ciò che colpisce è lo stato di conservazione del paesaggio, che ha saputo trovare un magico equilibrio tra sviluppo e tutela, tra turismo e salvaguardia. C'è verità, in questa costa e lo si percepisce alla prima sosta casuale, per mangiare un panino e sgranchirsi le gambe in una pineta a picco sul mare che una mano fatata deve aver materializzato per noi. Odori di pino e salsedine e il suono ipnotico delle cicale, poche manciate di nuotatori e pescatori in lontananza. Una lugubre e affascinante villa abbandonata, che testimonia un passato di clamorosa e tranquilla nobiltà. Siamo nei pressi di Trsteno. 
Amo l'orgoglio dei croati per la propria bandiera, la loro lingua incomprensibile, l'attaccamento all'Hajduk Spalato - il calcio è un formidabile veicolo di socializzazione - e il testardo radicamento, che non è chiusura. Le coste sono frequentate dai loro abitanti, ma accanto a loro polacchi, cechi, austriaci e bosniaci sono numerosi. Di targhe serbe, effettivamente, ne ho viste molto poche. 
Allo stato di conservazione orgoglioso della costa e del fertile e agricolo spicchio di terra pianeggiante a ridosso del delta del fiume Neretva, fa dolorosamente da contraltare la plateale svendita di Dubrovnik, passata repentinamente da città fortificata arcigna e autonomista a mesto e slabbrato zoo per turisti. Il centro storico è un tappeto di bottegucce mediocri e convenzionali e ristoranti che vomitano odori e tavoli apparecchiati in ogni vicolo. Gente che mangia a tutte le ore e fritti insulsi devastano ogni ipotesi di atmosfera di un nucleo che un tempo, si può immaginare, è stato ricco di suggestioni. Ora puoi solo aprire il portafogli per camminare sulle mura che cingono la città (trentacinque soldi a persona!) o prendere un costosissimo e mediocre gelataccio (tre euro a palla) oppure gustare il paesaggio dalla teleferica che approda a ridosso delle mura da monte Srđ per trenta euro a cranio. A proposito, non venga in mente al turista incauto di prendere un espresso al bar in attesa della funivia: il conto è una bastonata che neppure a Venezia. Dicono che la serie televisiva "Games of thrones" abbia accresciuto la vocazione "glamour" di questa (ex) perla dell'Adriatico. Io sospetto che la spinta del turismo di massa e dei suoi guadagni facili abbiano corrotto l'equilibrio del luogo molto tempo prima. Dubrovnik non ha più nulla di originale, è una battona che pretende di continuare ad esercitare un fascino che non ha più, rincorrendo la bellezza a botte di plastica, silicone e Botox, finendo per apparire soltanto tristemente grottesca. Ce ne siamo allontanati un po' affranti, anche considerando le sei ore di macchina che ci è costata la gita, tra andata e ritorno dalla piccola perla - questa si - chiamata Omis dove risiediamo. Omis è un'ex enclave dei pirati, la cui posizione incastonata nella montagna fa capire facilmente i motivi per cui sia stata scelta come base inespugnata. Omis non ha nulla di abbacinante e il suo fascino è piccolo e fragile. Da questo ha tratto la forza per conservarsi.
Il mare è davvero bello e aggirarsi in barca fra le mille isole è irrinunciabile. Non si può fare a meno di invidiare chi può permettersi di scorazzare fra gli angoli infiniti di questo arcipelago con un gommoncino o una barchetta, senza pretendere necessariamente una poderosa imbarcazione come quelle che ogni tanto fanno la propria comparsa lasciando a bocca aperta tutti gli altri. Ma anche chi si rotola pigramente su un lettino di qualche villa affacciata sulla costa. Ce ne sono, forse, milioni. Quasi sempre senza sfarzo, non siamo in costa Smeralda. Solo una splendida semplicità, talmente tranquilla da diventare altezzosa. 
È un posto complicato da cui allontanarsi, la Croazia. È un luogo da cui non puoi congedarti senza esserti riproposto di tornare. Magari per vedere la parte nord. Magari per provare meglio i vini del sud. Magari per farsela tutta in barca, come quei dannati turisti che, tra un tuffo e l'altro, davano proprio l'idea di essere felici. 









giovedì 11 maggio 2017

Annusatori e Robo-erotizzati (umani a metà)





flirt [der. di (to) flirt «corteggiare, civettare», in origine «imprimere moto con urto o movimento improvviso»], usato in ital. al masch. – Tipo di relazione amorosa, di solito a carattere idillico-sentimentale, fatta di schermaglie amorose, di incontri romantici, per piacevole passatempo e senza intenzioni serie: avere un flirt; è stato solo un flirt.  (fonte: Treccani)


Pare che il corteggiamento fine a se stesso sia il modello relazionale prevalente del mio tempo. Fine a se stesso vuol dire che è un tipo di relazione che non prelude all’incontro sessuale, né tantomeno ad una relazione stabile di reciproco impegno. Dove per impegno intendo la donazione di sé e l’investimento emotivo, non necessariamente esclusivi. Almeno è ciò che sostiene Alain de Botton, nella sua rubrica “School of life” su Internazionale, spingendosi a teorizzare che il flirt, questo tipo di relazione intrinsecamente inconcludente sia, oltre che diffuso, anche salutare. Una specie di valvola di sfogo che preserva la stabilità sociale, gratifica le persone senza esporle a rischi. Insomma due vanno a pranzo, si scambiano due occhiate e un sorriso, fanno un paio di battute allusive e poi tornano a casa pensando: “hey, ho fatto colpo. Sono davvero fico”. “Caaaavolo, ma allora nonostante le rughe sono ancora una donna seduttiva. Con quel vestito rosso faccio ancora la mia figura”. E possono reinserirsi nel loro schema sociale corroborati da nuova fiducia in se stessi. Tutto questo conserverebbe la stabilità, tutto sommato a buon mercato (se il conto del pranzo non è stato troppo esoso). Così, spiega de Botton nel video, si può giocare a illudersi di poter fare ciò che una società in realtà sempre più conformista non permetterebbe. Perfino un amministratore delegato potrebbe mettere in scena una relazione con la donna delle pulizie senza viverla davvero. Certo, poi che penserebbe il CdA? Non sarebbe appropriato. Non sarebbe conforme.

Quando ho visto il video ho pensato due cose. La prima è che coglie un modello molto diffuso nella società che vivo. Insomma, il de Botton mette il dito sopra un elemento cruciale delle relazioni contemporanee. Bravo. La seconda è che mi sento molto distante da questa modalità e non sono neppure sicuro che sia salutare. Il flirtatore mi fa pensare a qualcuno che pensa di poter annusare senza mangiare, nutrendosi degli aromi olfattivi e dell’immagine mentale che essi suscitano richiamandosi al cibo reale, illudendo la sazietà. Gli “annusatori” godono della proiezione di un oggetto reale come surrogato dell’immersione integrale nella verità – anche materiale – di esso.

Allora il mio tempo è quello della fuffa e dell’aria fritta, dei rapporti virtuali e telematici, dei contatti mediati e non diretti, dell’eros simulato, recitato, scimmiottato e mimato ed è un tempo che mi aliena.

Non nego che il corteggiamento sia stimolante e che l’allusione sia intrigante. Ma è il mezzo e non il fine. Gli umani – nell’attuale fase evolutiva, poi chissà come sarà fra centomila anni, eventualmente – sono ancora fatti per mordere, prendere, nutrirsi ed appagarsi usando il corpo oltre che la mente. Cioè servendosi dell’accoppiata fra i due per elevarsi o, talvolta, consolarsi attraverso il piacere.

Sempre Internazionale ha pubblicato un servizio sui robot fatti per il sesso, un prodotto che sembra prenderà molto piede nei prossimi anni. Femmine tutte-tette che "sono come tu mi vuoi" e falli senza fallo, che non temono defaillance. 
Nutro qualche dubbio circa le potenzialità di diffusione, ma se dovesse arrivare anche solo al 15% della domanda di pornografia sul web, saremmo di fronte ad un fenomeno di larga scala. E' interessante la levata di scudi delle donne nei commenti al video. Ma che vi sentite in competizione?

Il mio è anche il tempo del politicamente corretto e delle fighette contro cui si scagliava Clint. La verità, intesa come ricerca del vero nelle cose e non necessariamente come “dire la verità”, non è un valore granché apprezzato. Il mio è il tempo della solitudine e di quelli che, pur di non affrontare il reale, preferiscono fottere un robot. 

I robo-erotizzati sono la tipologia umana speculare e gemella degli annusatori: quelli tutta testa senza corpo, gli altri tutto corpo senza testa. Provo pietà e rabbia per entrambi.

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Tornerà la moda dei vichinghi,
torneremo a vivere come dei barbari.
Friedrich Nietzsche era vegetariano,
scrisse molte lettere a Wagner
ed io mi sento un po' un cannibale e non scrivo mai a nessuno,
non ho voglia né di leggere o studiare,
solo passeggiare sempre avanti e indietro lungo il Corso o in Galleria,
e il piacere di una sigaretta per il gusto del tabacco, non mi fa male.

Tornerà la moda sedentaria dei viaggi immaginari e delle masturbazioni;
I'analista sa che la famiglia è in crisi, da più generazioni,
per mancanza di padri,
ed io che sono un solitario non riesco; per avere disciplina ci vuole troppa volontà.
Mi piace osservare i miei concittadini specie nei giorni di festa
con bandiere fuori dalle macchine all'uscita dello stadio
e mi diverte il piacere di una sigaretta per il gusto del tabacco.

(Franco Battiato, “Tramonto occidentale”, 1983)






giovedì 13 aprile 2017

Due filosofie contrapposte


Tra le varie sfaccettature del complesso e poliedrico gioco degli scacchi, si possono distinguere due diverse filosofie: il gioco posizionale e quello combinativo. Pur giocando da anni, non ne conoscevo le differenze. Sono sempre stato un dilettante. Come accade per le discipline della scienza e delle arti, anche negli scacchi l’applicazione e lo studio sono necessari per salire di livello ed io in questo gioco non ho mai steso quel passo in più, fatto di ore di sudore, per diventare davvero bravo. Mi accontento di essere uno scacchista decente, status che mi garantisce un buon grado di divertimento e qualche piccola soddisfazione unita, ovviamente, a sonore batoste. La scoperta delle due impostazioni diverse mi ha entusiasmato. Ho capito finalmente chi sono! O meglio: chi vorrei essere sulla scacchiera.

Il gioco posizionale, definito “moderno” perché prediletto dai più recenti campioni internazionali, sfrutta la migliore posizione dei pezzi sulla scacchiera per prevalere sull’avversario. Privilegia piccoli vantaggi incrementali, lenti tatticismi per acquisire la supremazia sul campo di battaglia. E’ un modello di gioco più scientifico, cauto e pragmatico in cui la difesa, o meglio la profilassi, assume un’importanza cruciale. Il giocatore posizionale preferisce il controllo a distanza delle caselle sulla scacchiera e avanza solo se può farlo in modo organizzato, sicuro, stabile. Il suo sogno è un pezzo in posizione strategica che l’avversario non può scalzare: un cavallo avanzato, un alfiere centrale, una torre dominante. Gioca d’attesa, può ripetere a lungo mosse noiose prima di sferrare un attacco calcolato. Trasferendo la metafora al calcio, ricorda il gioco all’italiana nella sua accezione più speculativa (il giornalista Gianni Brera diceva che la partita perfetta è quella che finisce zero a zero, perché le due squadre hanno compiutamente esercitato il massimo sforzo tattico, fino allo stallo). Attesa, espedienti tattici architettati ad arte per acquisire successivi, infinitesimi avanzamenti. Grigio, austero, spesso monotono e spesso vincente.

Il gioco combinativo è basato sul talento, sull’intuizione e vive di fiammate improvvise. Più romantico e artistico che prettamente scientifico. Meno calcolo, più ispirazione. E’ un modello di gioco a suo modo cruento, nel senso che impone scambi serrati fra pezzi sulla scacchiera spesso originati dal sacrificio di uno o due pezzi per acquisire un vantaggio o la vittoria. E’ di norma orientato all’attacco, anche con pochi pezzi che infiltrano le linee nemiche per creare lacerazioni. Ricorda il calcio di Zeman ma anche dell’Olanda di Cruyff o del Milan di Sacchi. Squadre che hanno fatto sognare tifosi e deliziato tante platee per il proprio atteggiamento fieramente sfrontato che ha dato luogo a partite ricche di gol e di capovolgimenti.
Due schemi che richiamano, ricorrendo ad altra metafora sportiva, la caparbietà metodica di Ivan Lendl a fronte del genio pazzoide di John McEnroe, entrambi numeri uno del ranking mondiale di tennis a distanza di pochi anni. Chi ama il cinema potrebbe contrapporre Fellini a Monicelli. Resta in sospeso Kubrick, grande amante degli scacchi, il cui cinema possiede elementi di entrambi i modelli (il calcolo e il controllo accanto all’intuizione e alla spinta vitalistica dell’istinto).

Non è difficile capire a quale modello mi senta più affine. Questo non vuol dire che possa definirmi “un giocatore combinativo”, non sono abbastanza bravo da capire cosa farebbe, in una certa fase della partita, un combinativo e cosa un posizionale (come spiegato qui). Mi limito di solito a fare la mossa che mi pare più adeguata. Tuttavia, sapere verso cosa vorrei tendere mi pare già una svolta straordinaria e credo possa orientare un po’ meglio il mio modo di giocare. Aggiunge consapevolezza, che comunque non fa male. Anzi. Sono passato dal giocare una partita “alla come viene” al giocarla “con spirito combinativo”. Sarà pure un dettaglio, ma mi diverte. In più ora ho capito la ragione della mia attrazione per alcune mosse come i “gambetti”.

Approfondendo il tema mi sono imbattuto in un Grande Maestro internazionale, Michail Tal (Riga, 9 novembre 1936 - Mosca, 28 giugno 1992), considerato il più grande giocatore d’attacco di tutti i tempi. Soleva dire che il gioco degli scacchi non è una scienza, ma un’arte. Questo assunto universale ha di fatto fagocitato il mio interesse. Ho seguito alcune sue partite nelle quali ho visto sacrificare pezzi importanti, in un modo apparentemente folle, ad un disegno più grande e ad un orizzonte più lontano che lui solo vedeva e che lo ha condotto a conseguire vittorie impensabili. Come questa, ottenuta da malato e in età avanzata contro il campione del mondo Karpov. Sembrava prevedere le mosse dell’avversario come ineluttabili risposte alle sue, in una sequenza di cui teneva le redini fino all’epilogo. Giocò una partita simultanea alla cieca con dieci diversi giocatori, su dieci tavoli, vincendo senza guardare la maggior parte delle partite. Partecipai da ragazzino ad una partita simultanea all’oratorio insieme a mio padre, che fu il mio primo insegnante di scacchi. Conservo il ricordo bello di quelle serate in cui mi dedicava del tempo sedendosi al tavolo a giocare a scacchi con me. Modo silenzioso, il suo preferito a quell’epoca, di stare insieme. Quella volta all’oratorio il Maestro mi sconfisse in una ventina di mosse saltando dalla mia scacchiera a quella di altri quindici o venti partecipanti. Michail Tal fece tutto questo da dietro un sipario, incamerando nella sua memoria centinaia, forse migliaia di mosse ipotetiche o eseguite. A chi gli chiedeva come facesse si limitò a rispondere che è impossibile sondare come funziona la mente umana. Ecco, ho pensato con emozione: il mistero che sta al cuore dell’arte, di un vino, di un amore, indescrivibile nella sua essenza, trapela dalle parole di un campione di scacchi che pur nella sua grandezza stringe candidamente le spalle quando gli viene richiesto di spiegarne i motivi. Non potevo non innamorarmene. 


martedì 26 gennaio 2016

Family day? Uno sberleffo è sufficiente




Il motivo per cui si sente tanto parlare di gay e di family day, questioni che hanno un impatto pressoché nullo sulla collettività, e così poco del quantitative easing o del TTIP, che invece cambiano le nostre vite, è la facilità di comprensione. Comunicare che due tizi si mettono a vivere insieme e fanno le cose zozze (scandaloooo) oppure vogliono prendere un mutuo insieme è facile. Dire che i bambini devono avere un papà e una mamma (padre e madre suona meno tenero; "papà" e "mamma" invece sono parole che ci ricordano l'amore coccoloso di cui la Bibbia è intrisa... o no?) è facile. Sono concetti che tutti capiscono senza dover approfondire: papà, mamma, famiglia, convivenza. Categorie basilari su cui chiunque può esprimere rabbiosamente la propria ortodossia.

Io penso che le categorie semplici (ma prive di impatti per la maggioranza dei cittadini) vengano date in pasto all'opinione pubblica per distoglierla dai provvedimenti più importanti, e per questo celati da una coltre di disinformazione o di silenzio. Il nostro conto in banca, il futuro dei figli, il funzionamento degli ospedali e delle scuole, la costruzione della prossima linea metropolitana non si muoveranno di un millimetro in seguito all'approvazione - o meno - di matrimoni, convivenze o adozioni tra gay e lesbiche. Lo faranno invece a causa di decisioni che riguardano l'uso del denaro. La legge di stabilità, il pareggio di bilancio, il mito della bassa inflazione, l'unità monetaria, la normativa del lavoro fissano il perimetro delle nostre esistenze eppure ne sentiamo parlare in radio, ne leggiamo sui forum o sui social in misura assai minore. So che approfondire questi temi può essere meno divertente che baloccarsi a discettare di sederi e di amori, di lenzuola di corna di matrimoni e di adozioni. Ma si dà il caso che questo disinteresse, ampiamente cercato da chi sposta gli equilibri del consenso e del dissenso, questo mancato disturbo ai manovratori faciliti l’impoverimento della maggioranza di noi a vantaggio di un’esigua minoranza (trend in aumento, come pochi sanno: http://www.oxfamitalia.org/oxfam-news/la-grande-disuguaglianza). Assistiamo con amarezza al paradosso che proprio le fasce sociali che avrebbero più interesse a spostare il discorso dalle unioni civili ai provvedimenti fiscali ed economici siano quelle che più si appassionano all’ultima invettiva oscurantista di Bagnasco.
Personalmente liquido le farneticazioni sulla famiglia biologica con una bella pernacchia e passo avanti. Gli argomenti a cui voglio dare il mio tempo, la mia passione, il mio impegno sono altri e non perché mi facciano difetto l’idealismo, l’etica e il senso della giustizia sociale ma perché siamo arrivati ad un punto in cui o spegni l’incendio o muori. Se le fiamme divampassero in casa vostra non stareste a trastullarvi su quale libro mettere nel primo scaffale della libreria o su dove sistemare il televisore; prendereste un secchio, un tubo, un estintore e cerchereste di domare il fronte del fuoco costi quel che costi. Poco importerebbe che ad aiutarvi fosse Vladimir Luxuria, Matteo Salvini o Angelo Bagnasco. Ecco, vedete. La nostra casa prende fuoco. Piantiamola di distrarci e cominciamo a guardare in faccia le cause dell’incendio. Prima le fiamme, poi si parla: per promuovere i diritti devo prima promuovere la sussistenza. Per estendere le garanzie devo prima estendere la partecipazione sociale. Che se ne fanno due gay del riconoscimento della loro coppia se poi, all’atto pratico, non riescono a metterci un tetto sopra a quella coppia? E, viceversa, quanto può essere decisivo per una coppia di fatto realizzata, socialmente attiva e gratificata, che la loro unione abbia o meno il bollino dell’Autorità? Non discuto l’opportunità dell’uguaglianza, discuto la priorità degli argomenti.

Si ricominci a diffondere il benessere sociale anziché restringerlo. Si parli dei servizi pubblici, di dove vanno i soldi delle tasse, del perché non c’è lavoro e le aziende falliscono o emigrano, del perché i Comuni non hanno soldi per mettere a posto i marciapiedi, del perché le imprese italiane migliori finiscono in mano stranera, della globalizzazione del capitale invece che del lavoro. Se si uniscono i puntini, il disegno appare più chiaro e ci si rende conto che buona parte delle questioni hanno una matrice comune. 

Riprendiamo a camminare a testa alta. Sarà spontaneo, allora, riflettere dell’opportunità di volare.

venerdì 18 settembre 2015

Sul treno "metropolitano"


E’ mattina e come sempre sto viaggiando in treno. No, non quelli veloci. Quelli li prendo per andare in vacanza, nei giorni in cui tutto sommato della velocità farei anche a meno. Il mio è un treno cittadino, qualcuno dice “metropolitano” per darsi un tono da abitante di una grande città. Quello che mi ruba la mezz’ora decisiva per perdere un appuntamento, fare tardi dal medico o trovare chiuso un negozio. Che mi costringe a restare in ufficio più a lungo per recuperare il ritardo e che consegna mio figlio alla sua scuola quando tutti i suoi compagni sono già seduti al proprio posto. Minuti di ritardo, minuti non programmati che si sommano giorno dopo giorno fino ad ergersi a generare una montagna di tempo impressionante. Tempo rubato alla vita.

Intorno a me tante persone. Una marmellata umana opprimente di viaggiatori senza volto che condividono spazio vitale con altre persone tutte uguali, tutte la stessa routine e la stessa sorte. Non ci si guarda, per lo più ci si subisce. Eppure ognuno di noi un volto ce l’ha e con il volto una storia. Quella di chi è andato a vivere in periferia per avere una casa più grande o forse solo per potersela permettere, una casa, avere più verde per i bambini, allontanarsi dallo smog sul treno diventa la stessa storia di chi ha scelto un quartiere residenziale per potersi comprare la villa che ha sempre sognato. Accanto al bengalese che può prendersi in affitto una stanza solo in certe zone c’è la badante lettone che si è stabilita qui con il marito, che fa l’idraulico. Quelli che vivono al centro hanno problemi diversi, non necessariamente di minore portata. Questa città lascia scampo solo ai ricchi. Per me i ricchi non sono necessariamente i titolari di un sostanzioso conto in banca. Sono quelli che possono permettersi una scelta. Chi sta nel treno con me, nella maggior parte dei casi, questa facoltà non ce l’ha.

Il vagone è un blocco unico, un muro umano in cui è impossibile muoversi. Sento l’odore dei miei vicini; dopo qualche anno il cervello inizia a catalogare i segnali che il naso gli invia. Si distinguono i vecchi, gli indiani, le donne e gli uomini, gli adolescenti, gli impiegati e gli operai e così via ogni tipologia. Le conversazioni ho smesso di ascoltarle; mi confondono e, spesso, mi deprimono. Preferisco otturare le orecchie in qualche modo. Quando posso, leggo. Non ora: questo treno si è fatto attendere a lungo, quasi sempre è così. La banchina si è riempita di passeggeri che hanno lottato strenuamente per accaparrarsi pochi centimetri vicino al finestrino, per respirare un po’ meglio, o in un angolino più protetto che possa evitargli di essere travolti dalle spinte di chi tenterà di entrare alla stazione successiva. Leggere è impossibile. Il primo tentativo di alzare il braccio per portare il libro davanti agli occhi susciterebbe sguardi in cagnesco.

Nei giorni buoni osservo i compagni di viaggio con maggiore attenzione. Il viaggiatore quotidiano lo riconosci. Ha quella patina di polvere accumulata nell’attesa, di grigia rassegnazione agli eventi. Oggi il treno passerà in orario? Salterà una, due corse? Si romperà nel tragitto fra due stazioni e dovrò attendere il primo treno successivo in grado di raccogliermi (spesso lasciandone passare un paio perché troppo pieni per penetrare la cortina dei corpi che sbarra l’ingresso ai vagoni)? Essere pronti a tutto cambia l’espressione del viso, che si fa più serio. L’espressione guardinga, mai davvero in pace.

Insieme alle facce studio i comportamenti. E’ chiaro che la maggior parte di noi sta soffrendo. Nessuno, potendo scegliere, se ne starebbe fermo per dieci, venti, trenta minuti con l’alito di un estraneo sul collo. Nessuno si farebbe calpestare un piede, nessuno subirebbe l’angolo di una borsa di cuoio sul fianco, uno zainetto addosso al petto, un ombrello bagnato che gocciola sui pantaloni senza spostarsi a cento metri maledicendo la maleducazione altrui. Ma qui non è maleducazione: è sospensione dell’educazione. Il civismo si incrina nella lotta per la sopravvivenza.

La frustrazione non trova sbocchi, se non nello sfogo offerto dai social network. So che tutti si indignano per ritardi, malfunzionamenti, condizioni di viaggio ai limiti ma vedo che restano apparentemente impassibili. Le dita però si muovono incessantemente sugli schermi dei telefoni. Le persone cercano sul web conforto e condivisione per le proprie sofferenze, ma nel corso del viaggio sono tante solitudini silenziose. Durante il tragitto si pubblicano fotografie, commenti e pensieri, poi il treno arriva in un modo o in un altro a destinazione e tutto si sgonfia. Forse sopraffatto dalla giornata, dai propri impegni, forse disilluso di poter cambiare alcunché, il viaggiatore attende il prossimo viaggio, il prossimo supplizio, il prossimo ritardo da denunciare su internet attendendo la solidarietà di altri dieci, cento viaggiatori come lui.


Non posso fare a meno di chiedermi cosa succederebbe se, per qualche evento magico in grado di cambiare la storia, invece che macerarsi in mille solitudini confortate da un’illusoria solidarietà telematica, le energie di queste migliaia di persone convergessero in una protesta di massa coesa e focalizzata su un unico interlocutore. Se l’indignazione e l’esasperazione compresse da tanto tempo si concentrassero in un’azione ordinata e prolungata e fuoriuscissero con la portata che un torrente può avere quando passa attraverso un imbuto. Abbiamo dimenticato che il destino è nelle nostre mani e che la moltitudine non è solo traffico e caos, ma anche una opportunità. La moltitudine cambia la storia, è già successo e succederà ancora, anche se a guardarsi allo specchio oggi si può non credere. Monicelli diceva che la speranza è degli oppressi, che fa comodo ai padroni. Non voglio nutrire speranza, ma fiducia. Concittadini, amici pendolari, compagni di sventura. Fidiamoci di noi.

martedì 25 marzo 2014

Enopsichedelici guastatori a raccolto!


Pubblico l'estratto di un libro che mi sembra molto attuale, oltre che assolutamente godibile da leggere. Si tratta di un frammento del dialogo epistolare fra i due autori, pubblicato sulla rivista "Carta" nei primi anni duemila e riportato nel libro che cito in calce.

Che noia sfogliare i giornali coi loro servizi speciali sul Vinitaly, coi dossier esclusivi, elusivi, tutti uguali, ricalcati con carta marpione, xerocopiati, imperniati sui soliti vini che sfilano in passerella, sui calici piacenti, sui magnifici cento vincenti. Che palle questa melopea babbea sui vignaioli modaioli dell’haute-viticulture, che rompimento la prosopopea sulle cantine santine, sulle etichette smorfiosette fotografate come divette per calendari, sui filari ricchi come filiali della Banca Mondiale, sui Sassicaia, Gaja, Ornellaia, Lupicaia, sbandierati dai cafoni a caccia di benedizioni, esibiti dai parvenu per darsi arie da intenditori, usati addirittura in certe campagne [le chiamano così, campagne, pensa tu] pubblicitarie come testimonial subliminali per significare ricchezza, eleganza, potenza. C’è un gran proliferare di scuole di degustazione, corsi di abbinamento, sorsi di elevamento in società.

Qualche giorno fa mi sono trovato a una cena di ulivisti doc [nel senso politico], facenti parte di un club privé per diventare gourmet, sommelier, iniziati viziati, una cena in cui non si faceva che ammiccare, sbraidare, sbrodolare le proprie conoscenze. Non puoi immaginare che esibizionismo nell’annsare, che roteare di bicchieri, che schioccare di lingua, che gran toreare di commenti saccenti sui produttori emergenti, sui top del tappo, sulle hit del cappio.
Appena gli ho esposto il programma di “Terra e Libertà” e gli ho detto della necessità di un Critical Wine, di un approccio meno elitario, più identitario e rivoluzionario, li ho visti chiaramente darsi di gomito, sghignazzare, commentare ecco il solito kretino di estrema sinistra che crede ancora nei sommovimenti, nei contro incontri. Ma ormai la loro è una competenza sterile, sanno solo sottolineare le fermentazioni e non vedono i fermenti che covano nelle nostre menti, discettano di giacimenti gastronomici e svicolano sulle implicazioni sociali, si dilungano sugli affinamenti e non percepiscono le possibilità di nuovi affiliamenti, si inebriano degli invecchiamenti e gli sfuggono le derive che possono prendere i movimenti.
Consultano febbrilmente, fideisticamente, i vari gamberi rossi, gli omini michelini, i pesci rossi espressi, e entrano di diritto a far parte di una confraternita di esperti inerti. Noi non vogliamo enologi teologi, ghiottoni coglioni, né annullarci in satori per degustatori, noi abbiamo chiamato a raccolto gli enopsichedelici guastatori per cercare un terreno comune che sia immune dalla retorica bolsa della vite quotata in borsa per la gioia dei collezionisti onanisti.

"Bianco Rosso e Veronelli - Manuale per enodissidenti e gastroribelli" (Luigi Veronelli, Pablo Echaurren, 2005, Stampa Alternativa)

mercoledì 18 settembre 2013

Io e la Sardegna, anzi l’Ogliastra


Sono tornato in Sardegna. L’ho fatto in settembre e l’ho fatto in Ogliastra, sulle vestigia del mio nonno materno. Questa è una delle aree più incontaminate di un’isola comunque meno abusata, meno sfruttata, meno insediata della maggior parte dei luoghi d’Europa esclusa l’Islanda, qualche parte della Grecia e alcune vallate alpine (ma in montagna è più facile, per ovvie ragioni geografiche, preservare il territorio). Fin dall’infanzia il rito del ritorno si ripete periodicamente, ogni due o tre anni. In verità tre anni è già troppo: ho calcolato che dopo circa venti mesi di assenza dall’isola comincio ad avvertire strane manifestazioni di astinenza. L’effetto principale è una particolare sensazione di soffocamento, che nelle mie percezioni distorte dalla saudade mi convinco possa essere contrastata solo dagli spazi sardi. Anzi da quelli dell’Ogliastra. Per forza: qui ci venivo da piccolo, ci ho sguazzato da adolescente, ci ho fatto la prima vacanza zingara, in macchina da solo con un amico. Ci ho passato momenti di coppia, di famiglia e di solitudine. Qui ho imparato a nuotare sott’acqua, qui ho gustato i primi sorsi del vino scuro che facevano i parenti e già lo confrontavo con quello, diversissimo, dei parenti piemontesi. Qui ho visto i cieli più meravigliosamente pieni di stelle della mia vita.
Malgrado ciò, non è che abbia passato tutte le estati della mia vita qui e forse è anche meglio: il ritorno in questo modo mi dà emozioni ancora più potenti, perché non è scontato. Anzi ogni volta mi chiedo quando succederà ancora. Ogni anno, prima di approdare, mentre sono in nave e mi muovo tra le due sponde mi chiedo se la magia si ripeterà. Affiora sempre il timore che qualcosa si sia rotto. Qualcosa dentro di me oppure nel paesaggio, insomma che l’equilibrio si rompa, che il legame tra di noi (io e la Sardegna, anzi l’Ogliastra) venga inquinato da qualche fattore di interferenza.
Alla fine dell’estate 2013 le strade, le spiagge e le campagne della Sardegna anzi dell’Ogliastra sono ancora più rarefatte del solito. L’arretramento dell’attività turistica rende la natura più che mai padrona del paesaggio, i rilievi di roccia rossa che digradano al mare ancor più presenti. Qui la Sardegna esprime la sua identità nel modo plateale e severo che è sconosciuto ai tanti frequentatori delle – pur splendide, inimitabili – coste del nord dell’isola. Gli sparuti bar che delimitano il bordo delle spiagge, a ridosso delle pinete che sprizzano le proprie fragranze, hanno una decadenza commovente che sembra richiamare alla fine di un’epoca, oltre che alla conclusione di una stagione. Non c’è ombra, o se c’è è ben nascosta, del turismo su larga scala  che serve frotte di vacanzieri soddisfacendo bisogni in cambio di guadagni. Qui il “business”, parola che traccia una dimensione organizzata e sistematica del profitto, ritorna “commercio”, termine che invece ci riporta alla natura dello scambio di risorse. E poi i sardi, in netta maggioranza su tutti i turisti “continentali”, popolano le proprie spiagge con rispettoso orgoglio accanto a tedeschi in camper, coppie di pensionati e famiglie controcorrente. C’era anche la mia, di famiglia. Astrid ha fatto sua la Sardegna anzi l’Ogliastra con amorevole intensità. E’ una conferma della nostra affinità. Del resto non avrei potuto tollerare il contrario e probabilmente, se avesse detestato questa terra, l’avrei uccisa a Perdasdefogu dandola in pasto a un maialino del Gennargentu.
L’Ogliastra è essenzialmente rurale. Allevamento e coltivazione sono appannaggio di una miriade di soggetti anziché di aziende di dimensione elevata o anche solo media. E’ stato agevole quindi fare la spesa direttamente dai produttori, perché essi erano disseminati ovunque. Chi ha un orto spesso propone i propri prodotti in strada. Chi ha un po’ di terra non esita – se glielo chiedi – a vendere ciò che ha cioè frutta oppure verdura, olio, vino, mirto e acquavite, confetture, formaggio, salumi, pasta fresca, pane. Ad esclusione delle consuete catene della grande distribuzione – peraltro qui affette da un entusiasmante (per me) nanismo – non ho trovato un punto vendita (macelleria, alimentari, pescheria) che non si approvvigioni da produttori della zona e in molti casi da proprie risorse (il macellaio vende la carne dei propri maiali, il salumiere il formaggio di un amico o un parente e così via). Per chi abita in città ed è abituato a fare salti mortali per sfuggire all’assedio pervasivo dell’industrializzazione, pagando a caro prezzo le proprie “eccentriche” abitudini nutritive, trovare un simile contesto equivale ad approdare alla terra promessa o qualcosa di simile. L’aspetto alimentare ha contribuito non poco alla definizione di un equilibrio sensoriale magico in cui spazio visivo incredibilmente aperto, silenzi rotti dal rumore delle onde o della pioggia, aria lieve che lambiva incessante la pelle e le foglie, odori e sapori netti e inconfondibili hanno pennellato il quadro del nostro soggiorno.
Il contesto è un requisito determinante, e anche sottovalutato, al godimento di un’esperienza. Si sente spesso dire “il cibo che ho portato, una volta a casa, non aveva lo stesso sapore”. Se il vissuto coinvolge in modo accentuato l’aspetto sensoriale come può accadere, ad esempio, durante un viaggio in barca a vela oppure una spedizione in Tibet, esperienze in cui l’immersione ambientale è più totalizzante, la difficoltà è ancora più forte.
Vorrei condividere con gli amici cari ciò che ho provato, sentito, goduto e scopro che c’è un irriducibile dislivello tra ciò che so e ciò che riesco a descrivere. La frustrazione si riduce parlando con qualcuno che ha vissuto esperienze simili, poiché mi convinco che intuisca certe sensazioni avendone già provate di simili. So che coloro che conoscono l’Ogliastra od hanno trascorso giorni settembrini in Sardegna (anche in altre zone) hanno qualche chiave in più per accedere alle stanze del mio piacere vissuto. E’ un po’ come quando si tenta di spiegare l’esperienza di un figlio: sai già che chi non ha figli non potrà comprendere appieno i dettagli di ciò che gli comunichi, non hai bisogno di averne conferma leggendo negli occhi del tuo interlocutore un ascolto interessato ma distante. D’altro canto sai già che gli altri genitori afferreranno ogni sfumatura delle tue emozioni, senza dover attendere la luce partecipe che infiammerà i loro occhi quando gli parlerai, che so, della prima volta che hai preso in braccio tua figlia o dei primi passi di tuo figlio.
Mi interrogo su questi temi a sole ventiquattro ore dal rientro. Sono nel mio appartamento e assaggio pensoso il prosciutto di filetto di capra comprato da un pastore che stazionava, col suo banchetto appoggiato al furgoncino, all’incrocio di due strade. Ci dev’essere un modo per aiutarmi a “far capire” e introdurre le persone direttamente “dentro l’esperienza”. Certo, non potranno sentire gli odori che ho sentito, i silenzi a cui mi sono abbandonato e non saranno accarezzati dalla stessa brezza. La sensorialità è forse l’ultima barriera che la telematica dovrà (tentare di) superare per rendere la condivisione davvero completa e il virtuale sempre più reale. Dovesse mai riuscirci, il mondo cambierà in modo inimmaginabile. Prima di allora, mi limiterò a domandarmi se ascoltar parlare un pastore, vedere un video girato su una spiaggia lunare, guardare fotografie o farsi spedire una bottiglia di mirto riusciranno a trasferire, nell’interlocutore ignaro, una quota di emozioni superiore a quella che la mia umile penna ha saputo riferire.