martedì 21 settembre 2010

"Quello che interessa la gente"


Una delle frasi che sento più spesso proferire da politici di ogni schieramento e da giornalisti, opinionisti, editorialisti, riguarda “le cose che interessano la gente”. Si dice di smetterla di litigare su alleanze e leggi elettorali, su nuovi partiti e leadership, che si dovrebbe parlare “di quello che interessa la gente”. Segue la consueta e famosa lista di temi come il precariato la scuola la sanità le tasse eccetera. Si dovrebbe parlare “di quelli che non arrivano alla fine del mese” (i quali si presume stiano perennemente davanti al televisore in attesa di essere blanditi).

E’ un grimaldello retorico che spunta ogni volta che si vuole strappare l’applauso, dicendo un’ovvietà che di sicuro non troverà opposizioni. Chi può contestare la necessità di parlare “di quello che interessa la gente”? Si usa questa argomentazione per trarsi fuori da una conversazione difficile, per fare la figura di quello che sta dalla parte dei cittadini accusando implicitamente gli interlocutori di non esserlo.

Ogni volta che lo sento ho la certezza che non si parlerà “di quello che interessa la gente”. Dire cose che suscitano la passione, la curiosità e la partecipazione della platea dovrebbe essere l’unica ragione di un intervento pubblico. Più che rivendicarne la (evidente) opportunità, sarebbe molto meglio sottintenderla e, semplicemente, parlare delle proprie posizioni. Delle proprie proposte. Delle proprie idee. Punto.

Tra l’altro, presumere di sapere “cosa interessa la gente” mi pare già un sufficiente atto di supponenza.

Il sistema dell’audience, televisiva in particolare, già postula implicitamente che il motivo dell’esistenza di un programma sia l’interesse da parte di una platea. Diversamente, si chiama propaganda. Cioè distacco rispetto alla partecipazione del pubblico, che si vuole invece orientare in modo manipolatorio. Non si dà cioè risposta, attraverso un dibattito pubblico, ad una domanda, ma si vuole invece modellare quella domanda sulla base di un “altro” disegno, di tipo autoritario.

mercoledì 15 settembre 2010

L'economia della felicità



Quello che segue è un articolo pubblicato su "Internazionale" di questa settimana. L'autore è MANUEL CASTELLS un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009).
Il tema che affronta mi è molto caro, credo che il futuro del mondo passi per questo "cambio di paradigma" nella misurazione del benessere.

Non se ne parla da oggi, il tema in varie forme è stato trattato da varie persone. Uno dei primi fu Bob Kennedy nel celebre discorso del 18 marzo 1968.


Viva l’economia della felicità

Tre mesi fa, in un discorso all’università della Carolina del Sud, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha deciso di parlare dell’economia della felicità. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola. In realtà Bernanke rientra in una corrente sempre più nutrita di professori, politici e imprenditori che stanno cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice, anche se
poi ognuno lo intende a suo modo. Il denaro non fa la felicità e neanche il consumo.

Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso sostituendo il calcolo del prodotto interno lordo con l’indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan. Proposto nel 1972 dal re Jigme Singye Wangchuk, l’indice è diventato il parametro di sviluppo multidimensionale del paese, che combina tra loro quattro obiettivi: uno sviluppo economico
equo e sostenibile in cui la crescita si traduca in benefici sociali per i cittadini, la conservazione dell’ambiente naturale, la difesa e la promozione dell’identità culturale butanese, un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale da cui dipende l’armonia della vita quotidiana. L’indice nazionale di felicità si basa su alcuni princìpi buddisti radicati nella cultura del Bhutan, ma la sua applicazione può essere estesa a qualunque paese o regione che scelga l’armonia come principio di organizzazione sociale.

Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale si è estesa a tutto il mondo. Esistono indici comparati dei livelli di felicità che, se volete, potete trovare su internet e dimostrano che il Bhutan, un paese povero con meno di 700mila abitanti, è tra i primi venti al mondo per livello
di felicità. Ovviamente tutto dipende dai criteri di misurazione scelti. E in questo i butanesi e i loro amici di altri paesi non sono soli. Sempre più studiosi stanno conducendo ricerche su questo tema, proponendo innovazioni metodologiche che tengono conto anche delle statistiche sullo sviluppo umano. Così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perché la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità. La crescita rapida abbassa il livello di felicità perché sconvolge la ruotine quotidiana.

Carol Graham, una ricercatrice della Brookings institution, ha condotto un’indagine in vari paesi e ha scoperto che i fattori chiave della felicità sono una vita privata stabile, rapporti afettivi soddisfacenti, una buona salute e un reddito sufficiente. Ma ha anche osservato che la felicità aiuta a essere in buona salute. Dagli studi fatti emergono due fattori fondamentali: la socialità e la capacità di adattamento. Più reti familiari e sociali abbiamo, più siamo felici. Gli esperti di comunicazione hanno già individuato questo fattore come il motivo determinante del successo dei social network. Più internet, più socialità, sia virtuale che reale. E maggiore è la socialità, maggiore è anche la felicità. Il rapporto con la comunità è essenziale per mantenere l’equilibrio psicologico. Partendo da questo presupposto alcuni programmi di assistenza sociale, per esempio in Canada, prevedono l’organizzazione di attività per i disoccupati che generino reti di relazioni sociali e raforzino l’autostima.

D’altra parte la capacità di adattamento degli esseri umani riesce a gestire delle condizioni di disequilibrio attraverso meccanismi di compensazione nei comportamenti. Bernanke ha citato un paragrafo rivelatore di Adam Smith: “La mente di ogni uomo, prima o poi, torna al suo stato naturale e usuale di tranquillità. Nella prosperità, dopo un certo periodo di tempo, riscende a quel livello; nelle avversità, dopo un certo periodo di tempo, risale a quel livello”. Quest’affermazione, corroborata dagli studi di psicologia economica, spiegherebbe la
relativa calma sociale in situazioni di crisi: tutti finiamo per adattarci a cose che ci sembrerebbero insopportabili in altre condizioni. Ma è proprio questa capacità di accontentarsi a produrre un’armonia che dipende da noi e non dal valore della vita misurato in termini monetari.

In fin dei conti lo scopo dell’economia classica era rendere felici gli esseri umani. Invece il concetto di felicità, data la difficoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo. Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di affetto a quello di difendere i beni comuni (come la natura). Anzi, la fuga nel consumo accentua gli squilibri psicologici.
Per questo non è un caso che quando ci viene a mancare il mercato ci sentiamo vuoti. Ma questo vuoto si va riempiendo delle scelte a cui fa riferimento questo nuovo filone di ricerca, sintomo di un profondo cambiamento culturale: l’economia della felicità. Spero abbiate trascorso delle vacanze felici.

lunedì 13 settembre 2010

Il Danno


Lei diceva che chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa che si può sopravvivere al dolore. Quindi, non ha pietà.

E’ piuttosto il destino a non avere pietà dei protagonisti, imponendo la perdita come fatale dazio da pagare alla ricerca della felicità. Perdita della fedeltà, della sincerità, della dignità nella prima parte del libro. L’apparente naturalezza con cui lei veste i panni della promessa sposa e della femme fatale si fonda comunque sulla perdita di una parte di sé: nell’assenza di una scelta definitiva si ha la sospensione del proprio percorso, la negazione di un’identità univoca (ma quale identità può veramente esserlo?). E poi la perdita di un figlio, da intendere come distruzione di sé, del proprio passato, delle proprie radici. Come dichiarazione di sconfitta.

Del libro l’elemento disgregante e “disturbante” è la crisi della normalità, l’attacco alle convenzioni che sono di noi tutti. Tiepida e serena come un piatto di brodo, la tranquillità borghese del benessere che s’insegue quando non la si possiede e si contesta quando la si ha. Martyn sembra così virtuosamente “normale”: bello, vivace, giusto. Così forte e indipendente da mettere in discussione l’assenza di caos e passione che aveva fatto da sfondo alla vita in famiglia, durante la sua giovinezza. Ma il normale muore, in questo romanzo che gioca provocatoriamente con le estremità. Dell’amore, del sesso, dell’attrazione, della vita (“tutto. Sempre”).

Tuttavia il libro ci dà anche una lettura morale (moralista?) della vicenda dei protagonisti. Attenti, signori, che a giocare col fuoco ci si può scottare. E’ ciò che succede a lui, che a questo gioco davvero non era abituato, ma in un certo senso anche a lei che vede sfumare il suo disegno. Eppure Anna mi sembra così onesta, nella ricerca del conforto come pure nell’abbandono alla passione. Cosicché il personaggio più sfuggente e ambiguo del romanzo è il più coerente fino al colpo di scena finale.

Infatti a differenza di lui, che perde tutto il piatto dopo aver giocato la propria mano, lei può tornare dal suo ex promesso sposo Peter, per (ri)costruire la propria esistenza. Curiosamente (ma non troppo) è ancora il compagno su cui si era appoggiata per superare il famoso danno di gioventù, a fornire il riparo tranquillo. Quel porto sicuro che tutti cercano, che alcuni fuggono, che a volte trovano. Per lei anche la svolta più banale, fin quasi a sembrare un’autopunizione. Davvero il ritorno con Peter, la risoluzione più restauratrice che si potesse immaginare, appare inchiodare il personaggio ad un destino mille volte più amaro, dal punto di vista del romanzo che resta una parabola sulla torrenzialità delle passioni, rispetto al suo contraltare maschile. Laddove uno vive la propria sconfitta con lacerante dignità ma in un ideale seguito rispetto alle vicende narrate, lei attua uno scomposto e cinico “aggiustamento”, perdendo l’altezza lirica che aveva conquistato durante tutto il libro grazie alla sua aurea ambigua e misteriosa e scende tra gli umani, rivelando per intero la posizione morale dell’autrice e confermando l’assioma fondante della storia sul significato della perdita.