lunedì 13 settembre 2010

Il Danno


Lei diceva che chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa che si può sopravvivere al dolore. Quindi, non ha pietà.

E’ piuttosto il destino a non avere pietà dei protagonisti, imponendo la perdita come fatale dazio da pagare alla ricerca della felicità. Perdita della fedeltà, della sincerità, della dignità nella prima parte del libro. L’apparente naturalezza con cui lei veste i panni della promessa sposa e della femme fatale si fonda comunque sulla perdita di una parte di sé: nell’assenza di una scelta definitiva si ha la sospensione del proprio percorso, la negazione di un’identità univoca (ma quale identità può veramente esserlo?). E poi la perdita di un figlio, da intendere come distruzione di sé, del proprio passato, delle proprie radici. Come dichiarazione di sconfitta.

Del libro l’elemento disgregante e “disturbante” è la crisi della normalità, l’attacco alle convenzioni che sono di noi tutti. Tiepida e serena come un piatto di brodo, la tranquillità borghese del benessere che s’insegue quando non la si possiede e si contesta quando la si ha. Martyn sembra così virtuosamente “normale”: bello, vivace, giusto. Così forte e indipendente da mettere in discussione l’assenza di caos e passione che aveva fatto da sfondo alla vita in famiglia, durante la sua giovinezza. Ma il normale muore, in questo romanzo che gioca provocatoriamente con le estremità. Dell’amore, del sesso, dell’attrazione, della vita (“tutto. Sempre”).

Tuttavia il libro ci dà anche una lettura morale (moralista?) della vicenda dei protagonisti. Attenti, signori, che a giocare col fuoco ci si può scottare. E’ ciò che succede a lui, che a questo gioco davvero non era abituato, ma in un certo senso anche a lei che vede sfumare il suo disegno. Eppure Anna mi sembra così onesta, nella ricerca del conforto come pure nell’abbandono alla passione. Cosicché il personaggio più sfuggente e ambiguo del romanzo è il più coerente fino al colpo di scena finale.

Infatti a differenza di lui, che perde tutto il piatto dopo aver giocato la propria mano, lei può tornare dal suo ex promesso sposo Peter, per (ri)costruire la propria esistenza. Curiosamente (ma non troppo) è ancora il compagno su cui si era appoggiata per superare il famoso danno di gioventù, a fornire il riparo tranquillo. Quel porto sicuro che tutti cercano, che alcuni fuggono, che a volte trovano. Per lei anche la svolta più banale, fin quasi a sembrare un’autopunizione. Davvero il ritorno con Peter, la risoluzione più restauratrice che si potesse immaginare, appare inchiodare il personaggio ad un destino mille volte più amaro, dal punto di vista del romanzo che resta una parabola sulla torrenzialità delle passioni, rispetto al suo contraltare maschile. Laddove uno vive la propria sconfitta con lacerante dignità ma in un ideale seguito rispetto alle vicende narrate, lei attua uno scomposto e cinico “aggiustamento”, perdendo l’altezza lirica che aveva conquistato durante tutto il libro grazie alla sua aurea ambigua e misteriosa e scende tra gli umani, rivelando per intero la posizione morale dell’autrice e confermando l’assioma fondante della storia sul significato della perdita.

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