giovedì 20 gennaio 2011

La poetica dell'assenza


Giorni fa ho assaggiato alcune annate di un vino. Il Sassella Riserva Rocce Rosse di Ar.Pe.Pe.

Verticale, si chiama, l’assaggio di varie annate di una medesima etichetta. Il mio Virgilio in questo viaggio si chiama Armando. Lui conosce la zona, conosce l’azienda e pure l’etichetta. Lui è uno che si emoziona e sa come si descrive questo stato di grazia. Certamente sa anche che facendolo (cioè emozionandosi e descrivendosi) si può suscitare l’emozione altrui. Non di tutti, non allo stesso modo. Ma per lui, credo, basta anche solo una persona che capti i messaggi cifrati di cui è cosparsa la semina.

Il monito che precede il decollo è questo: “non cercate nell’assaggio qualcosa che già sapete”. Se prima di un viaggio o di una scoperta non ci si spoglia dei propri preconcetti e pregiudizi tutto ciò che si può raggiungere è una stratificazione di convinzioni. Non certo la conoscenza.

Insomma per usare un’esortazione a me cara: “mettetevi in discussione!”.

Questo vino evoca l’assenza. Non ha frutta. Non ha legno. Non ha i toni varietali del vitigno di provenienza. Non ha colorazioni fulminanti. Brilla per rarefazione invece che per concentrazione. E’ puro terroir. Concetto astratto, rappresentazione di un’idea, di uno stato della coscienza. Un monumento immateriale che tiene in sé il tutto con grazia eterea. Aromi complessi e gusto interminabile, timbro inconfondibile che riesce a sposarsi con una semplicità antica. L’esperienza sensoriale è così lunga e spontanea che la mia mente comincia a sollevarsi da quel tavolo e si abbandona alle onde della suggestione.

Ragiono sull’assenza, sul fascino delle ombre - che sono il presupposto per la luce - su “quello che non c’è”. Sulla sottrazione che è a volte il mezzo per raggiungere l’equilibrio. Sulla mancanza che è il veicolo del desiderio, di un luogo una persona o il sorso successivo. Penso a quanta bellezza si poggia sulle sottili ma fortissime corde della semplicità e quante cose si possono trovare in una sintesi che riesca a contenere la grandezza di certe creazioni. Si spendono tante parole per poi essere tacitati da un’unica pennellata che le racchiude tutte.

E’ un grande insegnamento, la sintesi. E’ disciplina dell’autocontrollo e della ricerca dell’essenza.

Cercare l’essenza attraverso l’assenza.





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QUESTO ARTICOLO E' STATO CITATO DALL'AZIENDA AR.PE.PE. A QUESTO INDIRIZZO.

lunedì 10 gennaio 2011

Le virtù del disequilibrio


In me c’è una metà più lunga: quella che comprime la struttura. E’ lei che mette in discussione l’equilibrio e causa le tensioni. Per esser solidali ad essa, le parti flessibili si comprimono e si accorciano, cercano di “compensare”. Di conseguenza, altre parti si allungano e distendono in un’affannosa ricerca della simmetria.

Può accadere di starci male, per questo squilibrio. E pure molto.

Il benessere passa attraverso la dedizione. Bisogna cercare di sorreggere l’impalcatura attraverso le virtù della costanza, massimizzare la percezione dei propri movimenti, sfumare l’acutezza delle percezioni nevritiche, controllare le dimensioni ed infine dedicarsi alla sottile arte della ricerca dell’equilibrio tra le parti. Distendere la metà compressa, certo, ma senza comprimere l’altra. Non si può vincere l'asimmetria con un impulso a sua volta asimmetrico. Bisogna vincerla con la simmetria buona: distendere e comprimere entrambe le metà, tenendo presente che certamente una soffrirà l’allungamento più dell’altra.

E' così che anno dopo anno si può restare aggrappati all’instabilità, impegnati in una pervicace lotta per la ricerca del contrappeso, considerandone perfino i lati positivi. La lotta spinge ad essere virtuosi, obbliga a dominarsi, impone un’autodisciplina.

Evidentemente quelli come me riescono a stare in piedi solo se stimolati dal disequilibrio.