Tra le varie
sfaccettature del complesso e poliedrico gioco degli scacchi, si possono
distinguere due diverse filosofie: il gioco posizionale e quello combinativo.
Pur giocando da anni, non ne conoscevo le differenze. Sono sempre stato un
dilettante. Come accade per le discipline della scienza e delle arti, anche
negli scacchi l’applicazione e lo studio sono necessari per salire di livello
ed io in questo gioco non ho mai steso quel passo in più, fatto di ore di
sudore, per diventare davvero bravo. Mi accontento di essere uno scacchista
decente, status che mi garantisce un buon grado di divertimento e qualche
piccola soddisfazione unita, ovviamente, a sonore batoste. La scoperta delle
due impostazioni diverse mi ha entusiasmato. Ho capito finalmente chi sono! O
meglio: chi vorrei essere sulla scacchiera.
Il gioco
posizionale, definito “moderno” perché prediletto dai più recenti campioni
internazionali, sfrutta la migliore posizione dei pezzi sulla scacchiera per
prevalere sull’avversario. Privilegia piccoli vantaggi incrementali, lenti
tatticismi per acquisire la supremazia sul campo di battaglia. E’ un modello di
gioco più scientifico, cauto e pragmatico in cui la difesa, o meglio la
profilassi, assume un’importanza cruciale. Il giocatore posizionale preferisce
il controllo a distanza delle caselle sulla scacchiera e avanza solo se può
farlo in modo organizzato, sicuro, stabile. Il suo sogno è un pezzo in
posizione strategica che l’avversario non può scalzare: un cavallo avanzato, un
alfiere centrale, una torre dominante. Gioca d’attesa, può ripetere a lungo
mosse noiose prima di sferrare un attacco calcolato. Trasferendo la metafora al
calcio, ricorda il gioco all’italiana nella sua accezione più speculativa (il
giornalista Gianni Brera diceva che la partita perfetta è quella che finisce
zero a zero, perché le due squadre hanno compiutamente esercitato il massimo
sforzo tattico, fino allo stallo). Attesa, espedienti tattici architettati ad
arte per acquisire successivi, infinitesimi avanzamenti. Grigio, austero,
spesso monotono e spesso vincente.
Il gioco
combinativo è basato sul talento, sull’intuizione e vive di fiammate
improvvise. Più romantico e artistico che prettamente scientifico. Meno
calcolo, più ispirazione. E’ un modello di gioco a suo modo cruento, nel senso
che impone scambi serrati fra pezzi sulla scacchiera spesso originati dal
sacrificio di uno o due pezzi per acquisire un vantaggio o la vittoria. E’ di
norma orientato all’attacco, anche con pochi pezzi che infiltrano le linee
nemiche per creare lacerazioni. Ricorda il calcio di Zeman ma anche dell’Olanda
di Cruyff o del Milan di Sacchi. Squadre che hanno fatto sognare tifosi e
deliziato tante platee per il proprio atteggiamento fieramente sfrontato che ha
dato luogo a partite ricche di gol e di capovolgimenti.
Due schemi che
richiamano, ricorrendo ad altra metafora sportiva, la caparbietà metodica di
Ivan Lendl a fronte del genio pazzoide di John McEnroe, entrambi numeri uno del
ranking mondiale di tennis a distanza di pochi anni. Chi ama il cinema potrebbe
contrapporre Fellini a Monicelli. Resta in sospeso Kubrick, grande amante degli
scacchi, il cui cinema possiede elementi di entrambi i modelli (il calcolo e il
controllo accanto all’intuizione e alla spinta vitalistica dell’istinto).
Non è
difficile capire a quale modello mi senta più affine. Questo non vuol dire che
possa definirmi “un giocatore combinativo”, non sono abbastanza bravo da capire
cosa farebbe, in una certa fase della partita, un combinativo e cosa un
posizionale (come spiegato qui). Mi limito
di solito a fare la mossa che mi pare più adeguata. Tuttavia, sapere verso cosa
vorrei tendere mi pare già una svolta straordinaria e credo possa orientare un
po’ meglio il mio modo di giocare. Aggiunge consapevolezza, che comunque non fa
male. Anzi. Sono passato dal giocare una partita “alla come viene” al giocarla
“con spirito combinativo”. Sarà pure un dettaglio, ma mi diverte. In più ora ho
capito la ragione della mia attrazione per alcune mosse come i “gambetti”.
Approfondendo
il tema mi sono imbattuto in un Grande Maestro internazionale, Michail Tal
(Riga, 9 novembre 1936 - Mosca, 28 giugno 1992), considerato il più grande
giocatore d’attacco di tutti i tempi. Soleva dire che il gioco degli scacchi
non è una scienza, ma un’arte. Questo assunto universale ha di fatto fagocitato
il mio interesse. Ho seguito alcune sue partite nelle quali ho visto
sacrificare pezzi importanti, in un modo apparentemente folle, ad un disegno
più grande e ad un orizzonte più lontano che lui solo vedeva e che lo ha
condotto a conseguire vittorie impensabili. Come questa,
ottenuta da malato e in età avanzata contro il campione del mondo Karpov.
Sembrava prevedere le mosse dell’avversario come ineluttabili risposte alle
sue, in una sequenza di cui teneva le redini fino all’epilogo. Giocò una
partita simultanea alla cieca con dieci diversi giocatori, su dieci tavoli,
vincendo senza guardare la maggior parte delle partite. Partecipai da ragazzino
ad una partita simultanea all’oratorio insieme a mio padre, che fu il mio primo
insegnante di scacchi. Conservo il ricordo bello di quelle serate in cui mi
dedicava del tempo sedendosi al tavolo a giocare a scacchi con me. Modo
silenzioso, il suo preferito a quell’epoca, di stare insieme. Quella volta all’oratorio
il Maestro mi sconfisse in una ventina di mosse saltando dalla mia scacchiera a
quella di altri quindici o venti partecipanti. Michail Tal fece tutto questo da
dietro un sipario, incamerando nella sua memoria centinaia, forse migliaia di
mosse ipotetiche o eseguite. A chi gli chiedeva come facesse si limitò a
rispondere che è impossibile sondare come funziona la mente umana. Ecco, ho
pensato con emozione: il mistero che sta al cuore dell’arte, di un vino, di un
amore, indescrivibile nella sua essenza, trapela dalle parole di un campione di
scacchi che pur nella sua grandezza stringe candidamente le spalle quando gli
viene richiesto di spiegarne i motivi. Non potevo non innamorarmene.
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