giovedì 13 aprile 2017

Due filosofie contrapposte


Tra le varie sfaccettature del complesso e poliedrico gioco degli scacchi, si possono distinguere due diverse filosofie: il gioco posizionale e quello combinativo. Pur giocando da anni, non ne conoscevo le differenze. Sono sempre stato un dilettante. Come accade per le discipline della scienza e delle arti, anche negli scacchi l’applicazione e lo studio sono necessari per salire di livello ed io in questo gioco non ho mai steso quel passo in più, fatto di ore di sudore, per diventare davvero bravo. Mi accontento di essere uno scacchista decente, status che mi garantisce un buon grado di divertimento e qualche piccola soddisfazione unita, ovviamente, a sonore batoste. La scoperta delle due impostazioni diverse mi ha entusiasmato. Ho capito finalmente chi sono! O meglio: chi vorrei essere sulla scacchiera.

Il gioco posizionale, definito “moderno” perché prediletto dai più recenti campioni internazionali, sfrutta la migliore posizione dei pezzi sulla scacchiera per prevalere sull’avversario. Privilegia piccoli vantaggi incrementali, lenti tatticismi per acquisire la supremazia sul campo di battaglia. E’ un modello di gioco più scientifico, cauto e pragmatico in cui la difesa, o meglio la profilassi, assume un’importanza cruciale. Il giocatore posizionale preferisce il controllo a distanza delle caselle sulla scacchiera e avanza solo se può farlo in modo organizzato, sicuro, stabile. Il suo sogno è un pezzo in posizione strategica che l’avversario non può scalzare: un cavallo avanzato, un alfiere centrale, una torre dominante. Gioca d’attesa, può ripetere a lungo mosse noiose prima di sferrare un attacco calcolato. Trasferendo la metafora al calcio, ricorda il gioco all’italiana nella sua accezione più speculativa (il giornalista Gianni Brera diceva che la partita perfetta è quella che finisce zero a zero, perché le due squadre hanno compiutamente esercitato il massimo sforzo tattico, fino allo stallo). Attesa, espedienti tattici architettati ad arte per acquisire successivi, infinitesimi avanzamenti. Grigio, austero, spesso monotono e spesso vincente.

Il gioco combinativo è basato sul talento, sull’intuizione e vive di fiammate improvvise. Più romantico e artistico che prettamente scientifico. Meno calcolo, più ispirazione. E’ un modello di gioco a suo modo cruento, nel senso che impone scambi serrati fra pezzi sulla scacchiera spesso originati dal sacrificio di uno o due pezzi per acquisire un vantaggio o la vittoria. E’ di norma orientato all’attacco, anche con pochi pezzi che infiltrano le linee nemiche per creare lacerazioni. Ricorda il calcio di Zeman ma anche dell’Olanda di Cruyff o del Milan di Sacchi. Squadre che hanno fatto sognare tifosi e deliziato tante platee per il proprio atteggiamento fieramente sfrontato che ha dato luogo a partite ricche di gol e di capovolgimenti.
Due schemi che richiamano, ricorrendo ad altra metafora sportiva, la caparbietà metodica di Ivan Lendl a fronte del genio pazzoide di John McEnroe, entrambi numeri uno del ranking mondiale di tennis a distanza di pochi anni. Chi ama il cinema potrebbe contrapporre Fellini a Monicelli. Resta in sospeso Kubrick, grande amante degli scacchi, il cui cinema possiede elementi di entrambi i modelli (il calcolo e il controllo accanto all’intuizione e alla spinta vitalistica dell’istinto).

Non è difficile capire a quale modello mi senta più affine. Questo non vuol dire che possa definirmi “un giocatore combinativo”, non sono abbastanza bravo da capire cosa farebbe, in una certa fase della partita, un combinativo e cosa un posizionale (come spiegato qui). Mi limito di solito a fare la mossa che mi pare più adeguata. Tuttavia, sapere verso cosa vorrei tendere mi pare già una svolta straordinaria e credo possa orientare un po’ meglio il mio modo di giocare. Aggiunge consapevolezza, che comunque non fa male. Anzi. Sono passato dal giocare una partita “alla come viene” al giocarla “con spirito combinativo”. Sarà pure un dettaglio, ma mi diverte. In più ora ho capito la ragione della mia attrazione per alcune mosse come i “gambetti”.

Approfondendo il tema mi sono imbattuto in un Grande Maestro internazionale, Michail Tal (Riga, 9 novembre 1936 - Mosca, 28 giugno 1992), considerato il più grande giocatore d’attacco di tutti i tempi. Soleva dire che il gioco degli scacchi non è una scienza, ma un’arte. Questo assunto universale ha di fatto fagocitato il mio interesse. Ho seguito alcune sue partite nelle quali ho visto sacrificare pezzi importanti, in un modo apparentemente folle, ad un disegno più grande e ad un orizzonte più lontano che lui solo vedeva e che lo ha condotto a conseguire vittorie impensabili. Come questa, ottenuta da malato e in età avanzata contro il campione del mondo Karpov. Sembrava prevedere le mosse dell’avversario come ineluttabili risposte alle sue, in una sequenza di cui teneva le redini fino all’epilogo. Giocò una partita simultanea alla cieca con dieci diversi giocatori, su dieci tavoli, vincendo senza guardare la maggior parte delle partite. Partecipai da ragazzino ad una partita simultanea all’oratorio insieme a mio padre, che fu il mio primo insegnante di scacchi. Conservo il ricordo bello di quelle serate in cui mi dedicava del tempo sedendosi al tavolo a giocare a scacchi con me. Modo silenzioso, il suo preferito a quell’epoca, di stare insieme. Quella volta all’oratorio il Maestro mi sconfisse in una ventina di mosse saltando dalla mia scacchiera a quella di altri quindici o venti partecipanti. Michail Tal fece tutto questo da dietro un sipario, incamerando nella sua memoria centinaia, forse migliaia di mosse ipotetiche o eseguite. A chi gli chiedeva come facesse si limitò a rispondere che è impossibile sondare come funziona la mente umana. Ecco, ho pensato con emozione: il mistero che sta al cuore dell’arte, di un vino, di un amore, indescrivibile nella sua essenza, trapela dalle parole di un campione di scacchi che pur nella sua grandezza stringe candidamente le spalle quando gli viene richiesto di spiegarne i motivi. Non potevo non innamorarmene. 


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